Onirismi messicani
Un deserto, un convento abbandonato, una vecchia canzone. Ah! E c'è anche una playlist per accompagnare la lettura. La trovi in fondo.
Nella mitologia azteca Tlaltecihuatl, la “Signora della Terra”, veniva raffigurata come un mostro rettile o anfibio, con una bocca enorme, piena di denti, e sangue che le scorreva lungo il corpo. Si credeva inoltre che fosse necessario offrirle sacrifici affinché continuasse a essere fertile e produrre vita. A lei si appellavano chiamandola tonantzin ihuan totahtzin, “nostra madre, nostro padre”.
Il deserto pulsava vita nonostante fosse notte inoltrata. Lucertole cornute dai corpi spinosi facevano vibrare i saguari assetati e i ficodindia in fiore spargevano il loro profumo anche a centinaia di metri di distanza attirando i colibrì. Mi trovavo lì per caso. Certo, avevo accettato quella borsa di studio dell’UNAM – «1.345 dólares al mes. A-me-ri-ca-nos», aveva scandito concitata la segretaria all’altro capo del telefono nel suo inconfondibile accento chilango – ma non avrei mai immaginato di imbattermi in una situazione come quella, di bivaccare nella vecchia missione gesuita di Villa de Arista – ormai poco più che un rudere macilento e sepolto dalla sabbia –, al decimo chilometro della SLP 63 che staccandosi dalla 49 presso El Entronque si trovava a metà strada fra San Luis Potosí e Aguascalientes.
Amos era seduto fianco a me. Con i suoi jeans americani e la camicia rosa a quadri che il vento riannodava in decine di pieghe diverse. Guardava il fuoco, o meglio sembrava studiarlo, cercando di ricavare da quella danza ancestrale le risposte alle domande che nell’ultima settimana ci avevano tolto il beneficio del sonno. Io ero sdraiato poco più in là, gli occhi fissi in un cielo ch’era un’esplosione di stelle seppur ancora verso nord un leggero chiarore si preoccupasse di dare corpo alla parola “immensità”.
«Chissà se Pancho Villa è mai passato di qui?», mi chiese d’un tratto col suo tono ciondolante, a metà tra una nenia e una trenodia farsesca. Le mani, quell’ingranaggio rugoso macchiato di nevi e vitiligine, si erano scrollate dal torpore dell’ultima mezz’ora per infilarsi nel taschino della giacca. L’odore di mota mi pizzicò all’istante le narici, lasciando che l’umidità della terra si mischiasse a quell’aroma erbaceo accentuato dal miracolo della combustione. Raramente l’avevo visto così concentrato e mentre le dita si muovevano incerte fra gli angoli della cartina cominciò a cantare una vecchia canzone di Piero De Benedictis:
Fumemos un cigarrillo
Para poder conversar
Tomemos alguna copa
Tenemos mucho que hablar
Hablar, hablar, tenemos mucho, que hablar
Hablar, hablar, tenemos mucho, que hablar
Poi, dopo aver aspirato qualche boccata, aveva allungato la mano: «Vuoi?»
Il primo tiro mi aveva bruciato la gola. Il secondo procurato una tosse disperata. Al terzo, finalmente, un leggero formicolio cominciò ad assalirmi le membra, alienandomi un corpo che fino a qualche istante prima credevo mio. Mi sembrava impossibile che il cuore, un tempo metronomo regolare, assecondasse ora lo stesso ritmo della risacca quando s’aggrappa all’ultimo brandello di spiaggia, attardandosi solo un istante prima di rituffarsi all’indietro verso l’infinita distesa del mare.
La chiamata del Departamento de Antropología l’avevamo ricevuta sei mesi prima, insieme alla notizia della sparizione di Carmen Shalev González, una lontana amica e collega di Amos – suo padre, un ebreo della Galizia emigrato al tempo della Seconda guerra mondiale, era stato a quanto pare grande amico di Aharon, il padre di Amos; i due si erano conosciuti in una posada ormai scomparsa di Tampico, sulle coste di Tamaulipas, dove Aharon era scappato in quanto dissidente nella Russia di Stalin.
«Miren, la vi de vez en cuando cerca la misión. Y luego de un rato, puff, se desapareció… Tragada por la puta chingada», non era raro imbattersi in queste e altre testimonianze da parte degli abitanti del luogo e la stessa congregazione gesuitica che organizzava le visite nella cripta e nel suo ammuffito archivio dava solo spiegazioni ambigue, a metà fra il colore locale e la superstizione: «Es verdad. Se la tragó Tlaltecihuatl, Nuestra Madre. Se la tragó la Tierra», e nel parlare facevano sibilare la lingua, emettendo un’aria di grilli che vibrando fra le pareti della cripta la riempiva di sussurri antichi.
Se ci ripenso ora non so dire perché avessimo deciso di andare alla missione di notte. Probabilmente era stata un’idea di Amos. So però che quando era uscito dalla biblioteca dell’alcaldía aveva uno sguardo stralunato, le pupille allungate e orizzontali, folli come quelle delle capre, una pennellata secca nel latte della sclera. Lasciammo la Vento che avevamo affittato poco dopo l’Instituto italiano de cultura e ci incamminammo a piedi verso quel polveroso rudere fiancheggiando l’autopista.
«Credo che la terra esiga un sacrificio». Amos aveva il volto imperlato di sudore, lo stesso sguardo di qualche ora prima, mentre sui miei occhi sempre più assonnati le parole rimbalzavano con una pesantezza innaturale, lasciandosi alle spalle una scia collosa ch’era arrivata alle mie orecchie arrampicandosi come un ragno scuro e silenzioso.
Quando li riaprii, non potei trattenere un gemito di stupore. La professoressa Carmen, i capelli crespi intricati come rovi, un lungo huipil abbellito da un fitto ordito su cui tanti fiori color malva si affannavano in un campo primaverile, mi guardava fisso. I suoi occhi erano calmi, due tuorli di tartaruga, sonnacchiosi ma vispi nonostante l’età. Era di fronte a me, appoggiando le gambe incerte a un bastone di abete scuro che snodandosi come un serpente teneva saldamente con la mano destra, mentre la sinistra, raccolta vicino allo sterno, era stretta su un piccolo libricino in marocchino scuro, dello spessore di un breviario, con le pagine gialle consunte dall’uso e dai funghi che dovevano aver proliferato indisturbati a lungo.
Prima che quel breve istante di stupore potesse dissolversi in qualcos’altro – un sorriso, una parola di saluto, una stretta di mano – Carmen Shalev González guardò verso l’alto, scrutando un punto indefinito alle mie spalle che indicò facendo tremare leggermente l’indice ora sciolto dall’abbraccio del libricino: «Tonantzin ihuan totahtzin, in tlalli in ilhuicatl», disse calma.
«Perdone? No la entendí lo siento», risposi balbettando, colto alla sprovvista da quei borborigmi senza senso.
«Tonantzin ihuan totahtzin», ripeté continuando a indicare il cielo e battendo contemporaneamente il bastone per terra, a rimarcare ogni sillaba con quel gesto d’enfasi, quasi volesse dare un ritmo a quelle parole ieratiche e solenni. Capii solo dopo un po’ che stava parlando in nahuatl, l’antica lingua dei Mexica, e per non voler essere scortese lasciai che parlasse ancora, cercando di capire il significato di quelle parole appena sussurrate ma nitide come un gracidare di rane al tramonto.
Mi guardava con i suoi occhi da rettile, ben appoggiata al bastone di abete, la falce della luna sottile come la pupilla in cui si rifletteva, il lungo huipil che frusciava al vento.
Impaziente e sempre più confuso, cercavo disperato Amos con lo sguardo, avvertendo solo l’odore bagnato della pioggia che da qualche minuto aveva cominciato a cadere leggera. Mi allungai su quella terra ora umida, assaporandone il dolce profumo d’essenze floreali, come se anche lei dopo un lungo letargo si fosse finalmente risvegliata, rinvigorita da quell’umidità vivificante di cui pareva abbeverarsi con le fauci aperte spalancate sull’abisso del mondo.
Prima che gli occhi mi si chiudessero del tutto, vidi la professoressa dirigersi verso un ficodindia che cresceva lì vicino, accarezzarne i rossi frutti maturi, strappare alcune spine turgide e tornare verso di me. La potevo sentire avvicinarsi, far tintinnare le chincaglie legate ai polsi e la collana di conchiglie che le circondava il collo, spirando fragili parole tra i denti, una litania ondivaga di creste e ventri, masticando le frasi lentamente come una poltiglia densa e succosa che le dava forza a ogni passo e la inebriava.
Ormai mi era praticamente addosso. Si mise in ginocchio, mi appoggiò all’orecchio le labbra screpolate, quello inferiore sul lobo, il superiore, ridotto a poco più di una linea sottile, sull’elice ricoperto d’acide goccioline di sudore. «Yo soy la Tlaltecihuatl que siempre está hambrienta y todo traga. No te espantes, porque estás volviendo a tus padres», sussurrò dolcemente, passandomi una mano fra i capelli e mettendo in evidenza la fronte e gli occhi spauriti bagnati di lacrime. Quindi, prese una delle spine che aveva strappato al ficodindia, la inumidì velocemente tra le labbra e con precisione mi bucò il lobo dell’orecchio, spremendo le goccioline di sangue che cominciavano ad affollarsi, che uscivano rosse e poi, quando toccavano terra, si mischiavano con la polvere lasciando una macchia scura informe.
Quando mi svegliai, della pioggia che avevo sentito non c’era più traccia. L’alba disegnava una linea infuocata verso l’orizzonte e le braci del falò morivano lentamente emettendo un sottile fumo grigiastro. Mi alzai sui gomiti, lasciando che l’aria fresca del mattino mi invadesse i polmoni. Quando mi voltai per prendere il maglione che avevo usato come cuscino una smorfia di orrore si dipinse sul viso. All’altezza del petto, dove dovevo aver poggiato la testa durante la notte, una macchiolina d’un rosso vivo, pochi millimetri di circonferenza, si allungava fra le fibre sgualcite del cotone. Amos era più in là, smontando quel po’ di bivacco che ci eravamo lasciati dietro, canticchiando quella vecchia canzone di Piero De Benedictis:
La noche tiene silencio
El agua también es mar
Recordemos nuestras cosas
También es bueno llorar
Llorar, llorar, también es bueno llorar
Llorar, llorar, también es bueno llorar
(La foto nel thumbnail è di Andrés Sanz su Unsplash.)
E adesso, la playlist🎶🎺📻:
È quella che ho ascoltato mentre scrivevo e forse ti farà compagnia mentre rileggi o semplicemente pensi.
Non so perché, ma Carmen mi ha fatto pensare a Cesárea Tinajero dei "Detective selvaggi"! A cosa ti sei ispirato? Mi piacciono queste tue storie bevi, piene di atmosfera.