Fra le prime lettere che tengo fra le mani ce n’è una che mi colpisce in particolar modo per lo stile appassionato, le pirouette littéraires, gli accenni sentimentali e nostalgici che Charles dovette provare per un certo Oleg («un vero e proprio faunetto»), duca di un paese non troppo lontano da Zembla – patria del nostro autore di cui non sono ancora riuscito a identificare l’esatta ubicazione –, morto prematuramente a quindici anni in un incidente di toboga. Sono righe intense, in cui al tenero ricordo dell’amico («la sua leggiadria da fanciulla», «le natiche armoniose») si alterna l’amarezza per la terra perduta. Ne riporto una parte1:
Carissimo Oleg,
ti prego perdona lo sfogo (so che rideresti se solo – ah, se solo [qui l’alone informe d’una macchia umida – una lacrima? – scolorisce l’inchiostro] – potessi leggere queste pagine). Mi manchi, in quest’ora fra le più buie… mi manchi. E mentre si consuma lo stoppino della candela che illumina la penombra di questa stanza così non brucia quello che arde nel mio cuore per te.
La mia Zembla è lontana, perduta negli spasmi di incubi impossibili! “Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque”, ricordi? Quelle serate passate a leggere insieme? Ingrati, invasori, assetati di rivalsa, mi hanno perseguitato, me, il loro re, e non ho potuto fare niente per fermarli. Se solo avessi un modo per farmi sentire, per far ascoltare la mia voce. Ma non ho i mezzi e, ahimè, sento che ormai anche le forze mi abbandonano…
La lettera prosegue, fra dichiarazioni affettuose e invettive piene di rancore, amore e terra, terra e amore, e se non la trascrivo per intero non è per svogliatezza, ma perché così facendo sentirei di tradire un segreto, la confessione di un cuore ferito.
Ammetto che preso da altre incombenze avevo dimenticato quei fogli ingialliti, o almeno così credevo fino a pochi giorni fa, quando ho appreso della sorprendente decisione di posticipare la premiazione della scrittrice palestinese Adania Shibli per il suo Un dettaglio minore alla Fiera del libro di Francoforte, motivata con la volontà di voler «rendere particolarmente visibili le voci ebraiche e israeliane», come detto dal direttore della fiera Juergen Boos dopo i recenti attentati di Hamas compiuti nei dintorni della Striscia di Gaza.
Non è mia intenzione fare polemica, non sono un esperto di geopolitica né tantomeno posso vantare pretese velleità affini. Ho fatto invece come suggerito, sperando di superare l’impasse ideologico e cercando quelle voci in territori che mi sono familiari: i libri. E così ho rispolverato vecchie letture, scorso l’indice su dorsi variopinti e multiformi, e poi, finalmente, scelto dagli scaffali della libreria di casa un libro di un autore maestro del dialogo diretto a una voce, Abraham Yehoshua, morto recentemente il 14 giugno del 2022. Esattamente un anno dopo, Einaudi, la casa editrice che detiene i diritti delle sue opere, ha pubblicato postumo Il Terzo Tempio – il libricino che ho tra le mani –, che come molti hanno già scritto ricorda una pièce teatrale (o una “novella in forma di dialogo” come recita il sottotitolo) e può essere considerato il testamento spirituale dello scrittore israeliano.
Nonostante lo spaesamento iniziale, la trama, che come spesso accade dà voce a un conflitto all’apparenza irrisolvibile fra due posizioni diverse, ricorda fin da subito lo stile personale dell’autore. In questo caso c’è una donna, Esther Azoulay, che si presenta al Rabbinato centrale di Tel Aviv per raccontare una “storia”, o meglio dare “una testimonianza”, per la quale il rabbino Nissim Shoshani non dovrà fare altro che ascoltare. Perché a Parigi, dove ella vive, un altro rabbino di nome Eliahu Modiano ha intessuto un’oscura rete di inganni per impedirle di sposarsi con David Mashiah, un ebreo persiano di cui si è innamorata. Il divieto è categorico, e qualora fosse infranto ai loro figli sarebbe precluso un giorno servire il Terzo Tempio, l’edificio sacro più importante dell’ebraismo2.
“Ma lei, signor rabbino, crede davvero che sia possibile costruire questo Tempio? […] Ma tutti noi sappiamo che non si può costruire il Terzo Tempio senza incendiare il mondo con una terribile guerra con le due grandi religioni nate dalla nostra […] che hanno costruito una chiesa e una moschea sulle rovine del nostro Tempio.”
Il problema principale consiste nel fatto che questo tempio – metafora, simbolo di pace? – dovrebbe ergersi secondo le Scritture nell’identico luogo del precedente e in nessun altro, cosa impensabile a causa dell’attuale situazione politica, dato che nei suoi pressi si trovano altri edifici di culto importantissimi per i musulmani, come la Cupola della Roccia.
“So già cosa diresti, mi sembra quasi di sentirti mentre mi apostrofi nel modo che amavi fare, laconico, a metà fra lo scherno e l’accondiscendenza, ‘Se pensi che vendicarti possa restituirti il tuo trono fai pure (le guance come pettirossi, l’indice che tamburella il mento glabro solo appena appena macchiato dalla prima peluria adolescenziale, n’est-ce pas?), non sarò certo io a fermarti se ritieni sia la cosa più intelligente da fare’. Il fatto, mio caro Oleg, è che non trovo pace. E il pendolo che annoiato suona la fosca mezzanotte ormai da tempo incontra i miei occhi aperti, vigili come quelli dell’allocco all’erta in cerca di una preda.”
Non credo che il mio amico (se così posso chiamarlo ormai) volesse porre la questione all’interno di un discorso manicheistico. E anche lo stesso Yehoshua sembra evitare un'impostazione del genere proponendo al contrario nelle pagine finali una soluzione conciliante al dilemma precedente, rivoluzionaria e arrischiata certo, ma esposta da Esther con voce piena di entusiasmo3.
“Eppure io, signor rabbino Shoshani, in tutta umiltà credo fermamente che si possa costruire il Terzo Tempio senza distruggere la chiesa o la moschea; non solo: credo che dovrebbe trattarsi di un santuario modesto, che cerchi di abbracciarle.”
Ma dove? Dove costruire infine, innalzare queste mura? A questo punto la donna srotola una mappa – in gran parte una fotografia del Monte del Tempio – e comincia a indicare con una bacchetta.
“Ecco, questa è la giusta ubicazione per il Terzo Tempio. Fuori dalle mura della città vecchia, modesto, umile, tra la Tomba di Assalonne e la valle della Geena. Un tempio che non interferisce né minaccia con la sua architettura nessun altro luogo santo […] Ecco, dunque, invece di volgere uno sguardo pieno di desiderio e invidia sempre e solo al luogo che ci è stato tolto; invece di batterci il petto dinanzi a un muro desolato dove crescono le erbacce, un rudere inutile e squallido…”
Diversamente dal pensiero comune, Yehoshua non immaginava come soluzione finale per la questione israelo-palestinese quella nota di due Stati per due popoli, da lui considerata ormai tardiva e inapplicabile, soprattutto a causa degli insediamenti illegali costruiti nei territori della Cisgiordania. Al contrario, egli credeva in uno Stato binazionale in cui palestinesi e israeliani potessero vivere fianco a fianco con parità di diritti. In un’intervista del 2017 all’Huffington Post Italia, Yehoshua dice:
“Da democratico non posso rinunciare al principio che tutti i cittadini devono essere eguali di fronte alla legge, senza distinzione per appartenenza etnica o religiosa. Come progressista, guardo con preoccupazione al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi e credo che in questo momento sia importante la prosa più che la poesia, e ciò significa che riconoscere agli abitanti della Cisgiordania diritti sociali di primaria importanza, quali sono, ad esempio, il diritto alla sanità e alla pensione, sia un tratto fondamentale, perché tangibile, di ciò che può voler dire uno Stato binazionale. Prendere atto della realtà non vuole dire subirla, ma neanche cancellarla in nome di una idea, quella dei due Stati, divenuta ormai impraticabile.”
“[…] saprei battermi. Ah se saprei battermi! E non solo col fioretto ma pur con la lingua saprei far valere le mie ragioni. Conservo ancora fresche nella memoria le infinite ore di studio al lume di candela passate a recitare brani dal Teeteto, il filosofo che come una levatrice sa portare alla luce i ragionamenti nascosti, discernere il discorso buono da quello cattivo, e così incalzando il suo interlocutore arrivare alla verità. E allo stesso modo ricordo ancora i consigli di Mr. Campbell (il vecchio precettore scozzese con quella ‘r’ che sembrava calpestare ogni parola) – tra una partita di scacchi e l’altra con monsieur Beauchamp (partite infinite giocate sulla variante Rossolimo della difesa siciliana, con l’alfiere bianco che si accasa minaccioso in B5) – mentre ci istruiva sull’intonazione migliore da tenere quando si parla, lo sguardo fisso sull’auditorio, fiero ma non feroce.”
Giusto… questo mi ricorda che dovrei trovare anch’io il mio contraddittorio, l’antitesi fichtiana preludio all’agognata sintesi, l’isola felice che dà ristoro al naufrago spossato4. Mi sovvengono a tal proposito le parole di Amos Oz raccolte nel suo ultimo Resta ancora tanto da dire. L’ultima lezione per i tipi di Feltrinelli, trascrizione di una conferenza pronunciata il 3 giugno del 2018 presso l’Università di Tel Aviv, durante la quale lo scrittore israeliano ribadì con forza come l’unica soluzione possibile sia una e una sola.
“Se non ci saranno qui, e piuttosto presto, due stati, allora ce ne sarà uno solo. E se dovesse sorgere qui un solo stato, non sarebbe uno stato binazionale, nulla del genere, no. Sarebbe, prima o poi, uno stato arabo dal Mediterraneo al Giordano. Con una fase transitoria di una sorta di dittatura degli ebrei sugli arabi e sui propri oppositori, o anche senza ‘una sorta di’. […] Non fatevi illudere da quello che vi dicono le anime belle sullo stato multietnico o binazionale come patria di tutti i suoi cittadini. Non esiste nulla del genere. […] Una cosa del genere non funziona.”
Eppure, mi chiedo, se questa soluzione è così facile, perché la gente è così disorientata?
“In realtà qui si svolgono ormai da decenni due guerre. Gli arabi palestinesi ci fanno contemporaneamente, cioè non in successione o in alternanza, bensì simultaneamente, due guerre. Una assolutamente legittima, e una sbagliata e riprovevole. Quella legittima è la guerra per il diritto del popolo palestinese a essere libero nella propria terra. Senza indugi, oppressione, posti di blocco, umiliazioni, espropri, estorsioni, senza costo di vite. Qualunque persona ragionevole, pur non approvando i mezzi, direbbe che è un obiettivo legittimo. Ma il popolo palestinese combatte contemporaneamente anche per far sì che noi si perda il diritto di essere un popolo libero nella nostra terra. Per far sì che anche noi non si abbia quel che loro chiedono per sé stessi. O che semplicemente noi non si esista più qui, o che si viva da sudditi protetti.”
E la stessa posizione pessimista emerge quando si paventa la possibilità di costruire un nuovo tempio sulla Spianata delle Moschee, un’eventualità impossibile, anche solo fisicamente.
“Ad esempio, si sente parlare sempre più spesso della ricostruzione del Tempio. Sarebbe una guerra mondiale contro tutto l’Islam. Il fronte arabo ci sta troppo stretto? Ingaggiamo una guerra mondiale contro Turchia, Indonesia, il Pakistan nucleare e Malesia? Vogliamo il Monte del Tempio! È nostro. Subito, lo vogliamo. Per ricostruirci il Tempio, subito. Non domani, non fra dieci anni: adesso.”
Non resta quindi molto altro se non convincersi a fare ciò che è necessario.
“Penso che nel profondo dell’animo la maggior parte degli israeliani sappia che bisogna procedere con l’intervento chirurgico, separare e creare due stati. Ma è difficile, doloroso, spiacevole, forse conviene rimandare, si scatenerebbe una guerra civile, ci sarebbero disordini, spargimento di sangue. Che fretta c’è? Quando gli arabi ci ammazzano e lanciano missili e ci bruciano le campagne significa che non c’è dialogo. Ma quando gli arabi se ne stanno buoni e non fanno niente, allora perché aprire la trattativa? Va bene così, no? […] Chi sarà la persona che convincerà gli israeliani ebrei a fare una cosa che nel profondo del loro animo sanno che bisogna fare?”
… che bisogna fare? Possibile che alla fine si riduca sempre tutto a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato? Ai buoni e ai cattivi? Personalmente credo al contrario che superare questa dialettica ingannevole sia il primo passo per riconoscere innanzitutto al nostro vicino (chiunque sia) un’alterità che spesso viene negata, demonizzata, filtrata da pregiudizi aviti e stantii o semplicemente elusa. C’è un passaggio, verso la fine della lettera di Kinbote, in cui il sentimento nostalgico si sostituisce al livore per la patria perduta, e les parfums les couleurs et les sons se répondent come lunghi echi che si confondono lontano, acquietando gli ardori del mio amico, il quale sembra aprire uno spiraglio verso un futuro diverso, scevro di rancore.
“[…] e nonostante tutto sarà questo il ricordo più dolce che porterò con me. Il sole che imporporava appena, il tulipano che tenevi tra le dita, i soffici riccioli biondi tagliati di fresco, l’armadio magico della stanza-ripostiglio in fondo alla Galleria Ovest, l’aria fredda e odorosa di muffa e quel cunicolo senza fine (tu che camminavi davanti a me, con i pantaloni di cotone completamente sporchi di gesso), la porta verde simbolo di infinite promesse (a proposito… non te l’ho mai detto, ma lì dietro non c’era altro che il camerino del Teatro reale dove un tempo si cambiava e truccava una vecchia attrice, a quanto pare un’amante di mio nonno Thurgus). Ah se solo potessi tornare indietro a quei giorni… Ma ormai quel che è fatto è fatto! Hai ragione. Nessuna vendetta potrà mai restituirmi ciò che mi è stato tolto, e anche se è difficile andare avanti e ‘il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce’, devo pur farlo in qualche modo e so che lo farò.”
Per saperne di più:
- Sulla posticipazione del premio a Adania Shibli alla Fiera del libro di Francoforte questo articolo de il Post;
- Una breve rassegna stampa su Il Terzo Tempio qui e qui;
- Questa bella intervista ad Abraham Yehoshua fatta da Sarah Parenzo per la rivista Naufraghi sul tema dello Stato binazionale; un’altra sull’Huffington Post Italia;
- Qualche breve spezzone de L’ultimo capitolo, un documentario dedicato agli ultimi anni di vita dello scrittore;
- Un testo inedito di Abraham Yehoshua pubblicato su biancamano, il blog di Einaudi (sì, Einaudi ha un blog);
- Una bella puntata di Fahrenheit sugli scrittori israeliani e il loro rapporto con la guerra.
E tu cosa ne pensi? Non mi interessa chiederti da che parte stai, ma se hai voglia di condividere una riflessione sarò ben lieto di ascoltarti. Intanto se questo primo numero ti è piaciuto puoi fare passaparola e inoltrarlo a chi vuoi.
Ci vediamo tra un mese,
Davide
Ho voluto affidare al corsivo gli sparsi frammenti di queste lettere.
Il primo fu costruito da Salomone e distrutto dal re babilonese Nabucodonosor II nel VI secolo a.C., mentre il secondo, ricostruito poco dopo, fu distrutto dall’imperatore Tito nel 70 d.C. e oggi ne rimane solo il muro di cinta occidentale.
Dubito che i due si conoscessero, suppongo quindi sia solo un caso se entrambi condividevano le medesime idee filosofiche.
Ringrazio Hans Blumenberg per la pertinente metafora.