L’altro giorno ero in metro a Roma cercando di raggiungere il centro. Nelle cuffiette gli Smiths suonavano a volume “sangue nelle orecchie” Pretty girls make graves (bisogna apprezzare il basso di Andy Rourke e questo è l’unico modo che conosco) isolandomi come un pachino fra i san marzano. Uso questa similitudine ortofrutticola non a caso, perché effettivamente il colore della mia pelle era di quel tipico colore rosso vivo che si ottiene solo quando si ha la fortuna di essere schiacciati nella ressa ordinata e compita dei vagoni Atac, fra un’ascella sudata e l’alito alpestre d’annata di un settantenne.
Tuttavia ormai ero lì, inutile recriminare. E deciso a sfruttare al massimo quell’invidiabile comodità, ho pensato bene di tirare fuori dallo zaino il libro che mi ero portato dietro, per cercare di alleviare i minuti che mi separavano dall’uscita e quindi dalla mia meta (per la cronaca: 27; li ho contati tutti. Ogni. Singolo. Secondo). Pessima idea, come potete immaginare: con una mano mi reggevo dove potevo, ben attento a non toccare qualcosa di sbagliato e beccarmi una denuncia per molestie, mentre con l’altra tenevo saldo il libro assumendo una posizione che ho ribattezzato in onore delle Bangles “Walk Like an Egyptian”, il tutto mentre cercavo di capire qualcosa di quel poco che riuscivo a leggere.
È stato in quel momento che mi sono detto basta. E che diamine! Anche leggere ha bisogno del suo tempo e del suo spazio.
Mi sono ricordato di quando – ormai più di dieci anni fa –, dopo essermi laureato alla triennale, decisi per migliorare l’inglese di passare con un amico l’intera estate in Irlanda. Ci eravamo candidati come volontari in uno dei tanti programmi Helpx, una di quelle piattaforme on-line in cui le persone offrono o ricevono ospitalità, compreso vitto e alloggio, in cambio di alcune ore di lavoro al giorno. È un modo semplice per viaggiare (low-cost), conoscere gente da ogni parte del mondo, e misurarsi con se stessi (cioè per farsi le lavatrici da soli fondamentalmente).
Fu così che per un periodo mi ritrovai a lavorare in un ostello nella regione del Connemara, nella parte ovest dell’isola, un vero paradiso fatto di fiordi, torbiere, colline aspre e selvagge di un verde affumicato, e un cielo costantemente spruzzato di nuvole basse e affusolate come albumi d’uovo bolliti.
Un giorno – era tardo pomeriggio, avevamo da poco finito il turno e fuori accennava a tramontare – ci ritrovammo con altri colleghi nella stanza-hobby dell’ostello, una sorta di salottino comune dove potersi rilassare – c’era la tv, il camino, un’ampia scelta di libri e dvd, giochi da tavolo, ecc. – e che aveva la caratteristica di avere una delle quattro pareti parzialmente occupata da un grande finestrone che dava su un paesaggio mozzafiato (un po’ tipo quello della foto qui sopra), in quel momento reso ancora più affascinante dalla pioggerellina che stava cadendo e che è tipica dell’estate irlandese.
Quel giorno, quando entrai e mi guardai intorno, notai la figura di un ragazzo. Era solo, seduto su una poltrona, apparentemente immobile e con le gambe incrociate, guardava fuori, paziente. Aveva un paio di grosse cuffie sulle orecchie dalle quali usciva appena appena accennata una musica a cui era evidente stesse dedicando tutto il suo tempo, assorto in religioso ascolto, senza fare altro.
Quell’immagine mi colpì all’istante, tanto che ancora oggi la ricordo nitidamente. Non so, ma non capita spesso, almeno a me, soprattutto quando si parla di musica, di prendermi del tempo e concentrarmi (quando ascolto della musica sto sempre facendo qualcos’altro: lavare i piatti, guidare, fare la doccia, scrivere una newsletter – Hands Clean di Alanis Morissette in questo preciso momento), magari anche isolarmi dal mondo, per dedicare tutta la mia anima all’ascolto. Ma lo stesso potrei dire di tante altre attività.
Tutto questo mi fa venire in mente un passo molto breve della Gaia Scienza, che si intitola “Perdita di dignità” e che fa così:
La meditazione ha perso tutta la dignità della sua forma, si sono ridicolizzati il cerimoniale e gli atteggiamenti solenni dei pensatori e non si tollererebbe più un uomo saggio d’antico stile. Pensiamo troppo rapidamente e strada facendo, mentre camminiamo, mentre attendiamo a negozi d’ogni genere, anche quando meditiamo su quanto c’è di più serio; abbisogniamo di poca preparazione, perfino di poco silenzio – è come se portassimo in giro nella testa una macchina dall’inarrestabile rullio, che neppure nelle condizioni più sfavorevoli cessa di lavorare. Un tempo lo si vedeva subito che uno voleva pensare – era l’eccezione! –, che voleva diventar più saggio e si preparava a pensare: si atteggiava il viso come per una preghiera e si tratteneva il passo: si stava per ore sulla strada, in silenzio, quando il pensiero «veniva» – su una o anche su due gambe. Così voleva «la dignità della cosa»!
Non so perché ma questo passo l’ho trovato sempre molto divertente. Mi ricorda un po’ lo sdegno di Alain Elkann quando in treno sulla tratta Roma-Foggia veniva disturbato da alcuni giovani “lanzichenecchi” mentre cercava invano di leggere la Recherche di Proust. Oppure mi immagino passeggiare per una strada o una piazza di città popolata ai lati da tanti Pensatori di Rodin, muti, perfettamente concentrati, che se fiati ti squadrano male.
Però in fondo forse lo capisco (Nietzsche, non Elkann). Mi ricorda quel ragazzo di tanti anni fa, completamente immerso in un’azione: ascoltare musica. Non ci si poteva sbagliare, ogni cellula del suo corpo gridava “Sto facendo questo. Siete pregati di non disturbare”.
Ecco, vorrei fare come lui. Smettere di leggere in metro tra un’acrobazia e l’altra (soprattutto fra una gomitata e un pestone) e dedicare il giusto tempo alle cose. È vero, sono sicuro che proprio come me anche la maggior parte di voi è invischiata all’interno di dinamiche neoliberiste e capitalistiche di produttività e performance capaci di sfociare esclusivamente in ciclici burnout. Ma penso che il tempo spesso sia solo una scusa (un po’ come l’ispirazione). Non intendo in senso generale, ma in termini di quantità e qualità. Non è il primo che mi manca, è il secondo.
Ed è questo che voglio ritrovare. E allenarmi a reimparare come godere del mio tempo. Non mi interessa se un’ora, due, o anche solo cinque minuti. Fare come auspicato da Nietzsche e ridare dignità alla forma: non credo che lui avrebbe approvato la mia inimitabile “Walk Like an Egyptian”.
Ti sei perso le ultime novità della newsletter?
Non c’è problema! Ti basta andare qui per trovare l’archivio con tutti i numeri usciti:
"La maggior parte di voi è invischiata all’interno di dinamiche neoliberiste e capitalistiche di produttività e performance capaci di sfociare esclusivamente in ciclici burnout", eccomi qua, ultimamente colleziono burnout! Hai ragione, dovremmo impegnarci così tanto anche a trovare del tempo per non fare nulla di produttivo per la società, ma per noi: leggere senza interruzioni o ascoltare musica senza fare altro contemporaneamente.