“I’m black. I’m solitary. I’ve always been an outsider.” (Octavia Butler)
Domenica scorsa ho approfittato della bella giornata a Roma per andare al parco a prendere un po’ di sole. Ho rispolverato dal sottovuoto il telo da mare (ahhh che buon profumo), riempito al volo una borraccia d’acqua, e sistemato il tutto nello zaino, senza dimenticare I Dispiaceri del vero poliziotto di Roberto Bolaño, il libro che stavo leggendo in quel momento e che ho finito proprio lì, disteso sul prato, mentre un bassotto faceva pipì a pochi metri da me.
I Dispiaceri del vero poliziotto è un libro inedito (non fu mai veramente terminato) e in quanto tale si può dire che ha i suoi momenti alti e i suoi momenti bassi. Tra i primi c’è un breve capitolo che mi è piaciuto particolarmente e che inizia così:
E cos’è che impararono gli allievi di Amalfitano? Capirono che un libro era un labirinto e un deserto. Che la cosa più importante del mondo era leggere e viaggiare, forse la stessa cosa, senza fermarsi mai.
Non so perché, ma quest’ultima frase mi ha ispirato all’istante, manco fossi stato Titiro all’ombra del faggio che canta Amarillide. Solo più tardi, una volta tornato a casa, mi sono ricordato di una conversazione avuta anni fa con un amico psicologo gestaltico, quando una notte di dicembre mi introdusse ai misteri esoterici dell’Enneagramma. Senza entrare nei dettagli, ricordo come a un certo punto il mio amico si schiarì la voce e guardandomi fisso negli occhi mi diede laconico del 7 (no tranquilli, non è insulto), decretando così per sempre la mia moira.
È stato allora che ho ricollegato. E che ho capito perché, leggendo quella frase, avevo avvertito come una scossa e una subitanea ispirazione invadermi il petto (non nego che sospette esalazioni aromatiche alle mie spalle possano aver avuto una qualche influenza al proposito): nell’Enneagramma, infatti, il numero 7 è generalmente associato al tipo dell’avventuriero, tipo che nella mia immaginazione si concretizza fondamentalmente nella figura di Peter Whitman, al secolo Adrien Brody, mentre corre disperatamente cercando di prendere al volo il treno per il Darjeeling nell’omonimo film di Wes Anderson (a rallentatore ovviamente, mentre partono i Kinks, come canta Niccolò Contessa).
Pericolosa trappola quella dell’ispirazione. E con essa quella ancora più insidiosa del talento o quella romantica del genio. Ne fu ben consapevole Octavia Butler, prolifica autrice di fantascienza e voce tra le più originali della scena letteraria americana. Molto meglio, secondo lei, sviluppare delle sane abitudini che affidarsi al fascino volatile dell’ispirazione:
Prima di tutto dimenticate l’ispirazione. L’abitudine è più affidabile. L’abitudine vi sosterrà sia che siate ispirati o meno. L’abitudine vi aiuterà a finire e lucidare le vostre storie. L’ispirazione no. L’abitudine è persistenza nella pratica.1
Un’idea a cui Octavia era molto affezionata:
Dimenticatevi del talento. […] Dimenticatevi dell’ispirazione, perché è più probabile che sia un motivo per non scrivere, del tipo: “Oggi non posso scrivere perché non sono ispirato”. […] E la caratteristica più preziosa che ogni aspirante scrittore possa avere è la perseveranza. Continuare a lavorare, continuare a imparare il proprio mestiere e continuare a provare.2
In quanto donna afroamericana cresciuta nell’America degli anni ’50 Octavia E.(stelle) Butler non ebbe una vita semplicissima. I suoi due nomi li prese dalle due persone più importanti della sua vita, la madre (Octavia) e la nonna (Estelle), quest’ultima cresciuta in una piantagione della Louisiana tagliando canna da zucchero, facendo bollire il bucato in calderoni roventi, e cucinando e pulendo per la famiglia presso la quale dimorava (praticamente una trama di Alice Walker).
A differenza della nonna però, Octavia ebbe la fortuna di trasferirsi fin da bambina in California, a Pasadena, anche se non riuscì ad andare a scuola troppo a lungo dovendo aiutare la madre a racimolare quei pochi dollari che le servivano per vivere.
“Sogna molto e ha una scarsa concentrazione”, scriveva una delle sue maestre delle elementari. Ed era vero. Sognava molto e cominciava a scrivere i suoi sogni su un grande quaderno rosa che portava con sé. “Di solito avevo pochissimi amici e mi sentivo sola”, racconta Butler, “ma quando scrivevo, non lo ero”.
Trovava rifugio dalla sua solitudine nella biblioteca pubblica di Pasadena, dove si incominciò ad appassionare alla letteratura di fantascienza: Ursula K. Le Guin, Frank Herbert, i fumetti della DC e della Marvel (“Avevo bisogno delle mie fantasie per proteggermi dal mondo”).
Quando capì che avrebbe potuto guadagnarsi da vivere scrivendo fantascienza, quel pensiero non l’abbandonò più. Nonostante gli avvertimenti della sua famiglia, fece esattamente quello che voleva fare. La chiamava la sua “ossessione positiva”. Ogni mattina si alzava alle due, scriveva per qualche ora, poi usciva per andare a fare i lavori più strani: televenditrice, ispettrice di patatine, lavapiatti, magazziniera.
Ma Octavia non credeva nel talento (tantomeno nell’ispirazione), quanto nel duro lavoro. Quando era ormai una scrittrice affermata, i consigli che dava a chi voleva scrivere – ma che potrebbero applicarsi a chiunque – erano sempre gli stessi: mai arrendersi. Piuttosto imparare, studiare, osservare, perseverare. Era proprio la perseveranza la lezione che aveva ricevuto da sua madre e sua nonna.
Nel corso della sua vita, Octavia Butler divenne la prima scrittrice nera di fantascienza, nonché una dei capostipiti dell’Afrofuturismo. Non si diede mai per vinta, e nel 1976 il suo primo romanzo, Patternmaster, fu pubblicato da Doubleday inaugurando così il Ciclo dei Patternisti. Il primo di una lunga serie.
Curiosamente lo stesso Bolaño fu un consumatore seriale di libri di fantascienza. Leggeva qualunque cosa gli capitasse fra le mani, senza sosta, rapito da un vortice di trame oniriche. Ce lo racconta lui stesso, in un libricino intitolato Lo spirito della fantascienza in cui trasuda tutta la passione per il genere.
Chissà quante volte avrà letto Octavia Butler, magari a tarda notte, affacciato alla finestra, con una Delicados in bocca ad aspettare l’alba, o magari sdraiato su un prato, una domenica di aprile, la penna in una mano, sentendosi ispirato.
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Ad esempio qui mi chiedo se esista o no la perfezione tra un tiro e l’altro al campetto da basket;
Mentre qui condivido una riflessione sul tema delle opinioni e di come si formano, derivata da cinque faticosi anni di dottorato.
https://www.aerogrammestudio.com/2013/11/18/13-inspiring-quotes-for-writers-from-octavia-e-butler/
https://joshunda.medium.com/an-interview-with-octavia-butler-2004-8933300df98a
Ma che bel collegamento, Octavia Butler e Roberto Bolaño! Sono d'accordo anch'io, quando hai "un'ossessione positiva", l'unica cosa che può aiutarti è l'abitudine e la sacra "tigna". Il talento spesso è sopravvalutato. Senza tenacia e forza di volontà non te ne fai nulla del talento, molli subito. "I Dispiaceri del vero poliziotto", al di là degli alti e i bassi, lo consigli quindi? Grazie!
Non conoscevo Octavia Butler, grazie per avermi fatto scoprire questa storia!