Non conosco il francobollo di questa lettera – un tritone azzurro, orocrinito –, su cui qua e là diversi forellini sembrano testimoniare l’attività di fastidiose lepisme. Tuttavia sono convinto c’entri in qualche modo Zembla, patria amata e mai dimenticata del nostro Charles Kinbote. Nell’angolo superiore destro una graffetta ormai rosa da incrostature rugginose appunta a malapena una vecchia foto, l’ingrandimento di una strana firma scritta a mano. Per comodità – e per tema che la lingua non sia capace a descriverla adeguatamente – la incollo qui sotto, all’uopo di voi lettrici e lettori.
Sul retro, nascosta da una leggera patina, una data è seguita da una breve epigrafe e da una firma:
22/6/1948
“La luna è un ladro arrogante, E il suo pallido fuoco che lei strappa dal sole”
In memoriam
Conmal
[…] E credo pertanto che quelle tre lettere [X, M, Y], caro zio, altro non siano che un messaggio cifrato per me, quasi quell’impavido marinaio abbia voluto solcare oltre i flutti del mare pure quelli del tempo: la “X”, infatti, sembrami un chiaro riferimento alla mia persona, volendo indicare con quella il cognome del mio defunto padre, Xavier [da alcune ricerche condotte personalmente risulta che Kinbote fosse conosciuto in patria come Charles Xavier e soprannominato Il Beneamato]; mentre la “M” è, evidentemente, omaggio alla mia Maiestas; la “Y”, infine, nondimeno parmi una palese allusione alla mia trisavola, la regina Yaruga, dei miei avi illustri il ceppo vecchio.
«Grande traduttore di Shakespeare», ricordo Conmal soprattutto per la stupenda versione – in zemblano – del Timone d’Atene (di cui l’epigrafe sul retro della foto), redatta quando gli scrittori inglesi non erano ancora reperibili nel paese. È probabile che il re conoscesse il suddetto testo grazie un’edizione in trentaduesimo che trovavasi nel ripiano sottostante di un armadio a muro, situato in un vecchio locale del palazzo reale che fungeva da ripostiglio («una minuscola edizione tascabile, adatta al taschino di un panciotto»).
Non sono sicuro del perché il vecchio zio Conmal abbia voluto chiedere un consiglio su questa traduzione, ma so la firma appartenere a Cristoforo Colombo, il quale aveva per la stessa un’attenzione talmente maniacale da cambiarne più volte l’ortografia nel corso della sua vita. Si faceva chiamare Cristóbal Colón, perché i nomi, come scriveva Aristotele nella Metafisica, “debbono convenire alla qualità e agli usi delle cose”. E così Cristóbal significa “portatore di Cristo” mentre Colón sta per “colonizzatore”.
Mi ha sempre affascinato la sua figura. Non so cosa avrei dato per ritrovarmi lì sulla sua nave quel 12 ottobre del 1492 a guardare l’orizzonte.
E non sono il solo a subirne il fascino.
In un saggio pubblicato da Einaudi e intitolato La conquista dell’America, il filosofo bulgaro Tzvetan Todorov ha preso spunto da questo personaggio per parlare della scoperta che l’io fa dell’altro, attraverso il racconto di una «storia esemplare», quella della conquista dell’America, che ha segnato «l’incontro più straordinario della nostra storia».
Nel corso di questo viaggio una delle prime domande che dobbiamo porci è: cosa cercava Colombo aprendosi una via verso le Indie? Apparentemente, ci dice Todorov leggendo le sue numerose carte raccolte in diari, lettere e rapporti, l’oro. Già all’indomani della scoperta, egli annotava sul suo diario:
«Facevo attenzione e cercavo di comprendere se avessero dell’oro» (13 ottobre); «Non voglio perder tempo ma cercare l’oro» (15 ottobre); «[…] Subito mossero verso le navi con più di sedici barche o canoe, portando cotone filato e altre loro cosette, delle quali l’Ammiraglio comandò che nessuna venisse toccata, perché essi capissero che egli non cercava altro che l’oro» (1° novembre); «Nostro Signore nella sua bontà mi faccia trovare quest’oro» (23 dicembre).
Eppure, non era solo l’oro a tormentare i sogni dell’ammiraglio, ma un cruccio più profondo, qualcosa che aveva letto nei resoconti di un altro grande viaggiatore, Marco Polo.
Libri, libri e ancora libri. Te lo dissi sempre, i tuoi difetti sono gli innocenti punti deboli di un grande pioniere. Hai vissuto troppo a lungo chiuso nella tua biblioteca, e troppo poco fra i ragazzi e la gioventù. Gli scrittori dovrebbero vedere il mondo, coglierne i fichi e le pesche, e non meditare di continuo in una torre d’avorio giallo. E se per scrivere il suo Timone il bardo lesse Plutarco e Luciano, non per questo le effemeridi della tua vita debbono registrarti sempre immerso fra le carte a imitarlo. Ma ora mi avvedevo che non di rado i libri parlano di libri, ovvero è come si parlassero fra loro. E così quei luoghi mi appaiono ancora più inquietanti, alcove di lunghi e secolari sussurri, di un dialogo impercettibile tra pergamena e pergamena.
Nel Milione di Marco Polo, Colombo aveva letto con avidità il meraviglioso ritratto del Gran Khan e la suggestione aveva fatto il resto: «Ma io sono sempre deciso ad arrivare alla terraferma e alla città di Quisai, e a consegnare le lettere delle Vostre Altezze al Gran Can» (21 ottobre 1492); «è da lungo tempo che l’imperatore del Cataio ha chiesto di poter avere dei sapienti che lo istruiscano nella fede di Cristo» (Lettera rarissima, 7 luglio 1503); «Spero di poter diffondere il santo nome di Nostro Signore e il Suo Vangelo» (lettera al papa Alessandro VI, febbraio 1502).
La vittoria universale del cristianesimo: questo è il movente che anima Colombo, uomo profondamente religioso, il quale, per questa stessa ragione, si considera un eletto, vede in se stesso l’incaricato di una missione divina, e vede l’intervento divino dovunque, nel moto delle onde come nel naufragio della propria nave (la notte di Natale!)
[…] In che modo un uomo privo di mezzi poteva lanciare il suo sogno nel XV secolo? È semplice come l’uovo di Colombo: basta scoprire l’America per procurarsi dei fondi… O meglio, basta andare in Cina per la via occidentale, la via «diretta», giacché Marco Polo e altri autori medievali avevano affermato che in quel paese l’oro «nasceva» in abbondanza.
Ma questi due temi, la ricerca dell’oro e la diffusione del cristianesimo, sono propedeutici nel saggio di Todorov al racconto di un altro aspetto importante del comportamento di Colombo, l’analisi dei modi in cui egli giudica e descrive gli uomini che incontra durante i suoi viaggi, il suo rapporto con l’altro, o l’alterità, e il processo mentale che conduce a questi giudizi, spesso basato su argomenti d’autorità. Ed essendo Colombo un uomo in possesso di una cultura di stampo medievale, questi “argomenti” erano presi da passi della Bibbia, riflessioni dei Padri della Chiesa o dei grandi eruditi latini.
È anche per questo che durante il suo primo viaggio egli è convinto di vedere le cose più strabilianti.
«Capì anche che lontano di lì c’erano uomini con un occhio solo e altri con nasi di cane» (Giornale di bordo, 4 novembre 1492); «Il giorno prima, quando l’Ammiraglio raggiunse Rio de Oro, dice di aver visto tre sirene che sporgevano assai dal mare, ma non erano così belle come vengono descritte; infatti il loro volto assomigliava a quello di un uomo» (9 gennaio 1492); «Vi sono a ponente due province che non ho attraversato, in una delle quali, chiamata Avan [l’Avana], la gente nasce con la coda» (Lettera a Santángel, febbraio-marzo 1493).
Queste e altre notizie, Colombo le avrebbe potute leggere in qualsiasi codice o bestiario medievale, come ad esempio Il Libro dei mostri (Liber monstrorum), un fortunato trattatello latino attribuito ad Aldelmo di Malmesbury e redatto intorno al VII-VIII secolo, in cui sono raccolte le più disparate notizie sui monstra, cioè su tutti gli esseri “mostruosi” che abitano l’ecumene. Al suo interno infatti troviamo un mondo variegato, popolato da creature straordinarie come sirene («giovanette marine, che seducono i marinai con le loro splendide forme e col miele del canto»), ciclopi («In altezza superavano gli alberi più svettanti, e si cibavano di sangue umano»), cinocefali («esseri dalla testa di cane, che non possono dire una sola parola senza interrompersi ed abbaiare, mescolando latrati e discorso»), dracontopodi («non differiscono dalla normale struttura umana se non per la coda da drago di cui sono forniti») e molte altre ancora[1].
Nei suoi giudizi quindi, Colombo ha un atteggiamento che possiamo ritrovare ancora oggi quando ci confrontiamo con qualcosa che non conosciamo, che sia una persona o altro.
È interessante osservare il modo in cui le credenze di Colombo influenzano le sue interpretazioni. Egli non si preoccupa di capir meglio le parole di coloro che a lui si rivolgono, perché sa a priori che incontrerà ciclopi, uomini con la coda e amazzoni. Vede bene che le «sirene» non sono belle come si credeva che fossero. Ma anziché concludere per l’inesistenza delle sirene, preferisce correggere un pregiudizio con un altro pregiudizio: le sirene non sono belle come si pretende che siano.
[…] Egli sa in anticipo ciò che troverà; l’esperienza concreta non viene interrogata – secondo certe regole prestabilite – per la ricerca della verità, ma serve ad illustrare una verità che già si possiede prima.
[…] e non credere che anch’io non sia stato vittima di un qual certo pregiudizio. Ti avrò certamente raccontato di quanto mi accadeva durante i miei primi mesi al campus del Wordsmith [l’università di New Wye dove insegnava Kinbote], quando avvicinato da qualche ficcanaso mi vedevo sventolare davanti alla faccia alcune fotografie – tenute salde tra il pollice e l’indice – che ritraevano lo scomparso re di Zembla, facendomi così intendere quanto assomigliassi a quello «sfortunato monarca». Ma mi conosci, li guardavo di sottecchi, paravo le domande con risposte tipo «tutti i cinesi si somigliano» o «tutti gli zemblani con la barba si somigliano», e cambiavo argomento.
Così come il suo rapporto con l’altro è predeterminato dai suoi pregiudizi, anche la scoperta dell’America è conseguenza dello stesso comportamento: egli non la scopre, la trova dove sa che avrebbe dovuto essere.
È dunque, paradossalmente, un tratto di mentalità medievale che fa scoprire l’America a Colombo e gli fa inaugurare l’età moderna. Ma Colombo non è un uomo moderno, come se colui che stava per far nascere un mondo nuovo non potesse già appartenergli.
[…] Come abbiamo visto, egli non riesce a percepire l’altro, e gli impone i propri valori; ma il termine che egli adopera, il più delle volte, per riferirsi a se stesso, e che usano anche i suoi contemporanei è: lo straniero. Se tanti paesi si sono disputati l’onore di essere la sua patria, è perché Colombo non ne aveva una.
Eppure, mi chiedo, non è proprio questa caratteristica a fare di lui un uomo moderno? Nato in Italia (Genova), vissuto fra Spagna e Portogallo ma appartenuto sempre al mare. Potremmo definirlo quasi il primo apolide di quella nuova epoca. La sua stessa tomba – oggi nella cattedrale di Siviglia – si trovava in origine a Valladolid, dove morì nel 1506. Ma i suoi desideri risiedevano altrove: egli non aveva infatti mai dimenticato le terre esplorate, motivo per cui voleva essere seppellito sull’isola di Hispaniola, uno dei tanti scogli delle Antille immerso nel blu del mar dei Caraibi (e oggi diviso fra Haiti e Repubblica Dominicana).
Alla fine, mi piace credere che nel profondo l’unica cosa che interessasse davvero a Colombo fosse il piacere, direi quasi infantile, di scoprire ed esplorare.
Conclude Todorov:
I profitti [l’oro] che vi si «debbono» trovare interessano a Colombo solo secondariamente: ciò che conta sono le «terre» e la loro scoperta. Quest’ultima sembra, per la verità, subordinata a un obiettivo, che è il resoconto del viaggio: si direbbe quasi che Colombo abbia compiuto la sua impresa per poter fare, come Ulisse, dei racconti inauditi; ma il racconto del viaggio non è forse il punto di partenza, e non solo il punto di arrivo, di un nuovo viaggio? Colombo non è forse partito perché aveva letto il racconto di Marco Polo?
E tu cosa ne pensi?
È davvero possibile escludere Colombo dalla storia moderna, o al contrario dobbiamo considerarlo come il primo uomo di quella nuova epoca?
Se hai voglia di condividere una riflessione sarò ben lieto di ascoltarti. Intanto se questo numero ti è piaciuto puoi fare passaparola e inoltrarlo a chi vuoi.
Ci vediamo tra un mese,
Davide
[1] Le citazioni sono prese dalla bellissima edizione pubblicata recentemente da Bompiani (2018), Bestiari tardoantichi e medievali. I testi fondamentali della zoologia sacra cristiana, curata da Francesco Zambon.
La questione finale (ovvero, se Colombo può essere considerato come il primo uomo 'moderno') mi intriga su molti livelli. Credo anche che intercetti qualcosa di particolarmente complicato perché chiama in causa che cosa voglia 'modernità' e soggettività 'moderna'. Se vuol dire appartenere dovunque (e, in un certo senso, da nessuna parte), allora forse possiamo parlare di una soggettività moderna con Colombo (e discutere insieme di come, magari, già forse esistevano, in qualche forma, processi di cosmopolitismo e globalizzazione che potremmo ritenere moderni).
D'altra parte, lo 'specifico' della modernità è stato individuato nel tempo anche altrove rispetto a questo appartenere multiplo e fluida, per esempio nello sviluppo di forme di organizzazione mondana nella vita sociale o nella razionalizzazione e nella burocratizzazione.
Grazie!