Come si forma un'opinione?
Un breve vademecum che ho imparato facendo il dottorato
Sto per fare una cosa che non mi sarei mai aspettato nella vita. Sto per dottorarmi. Sì, esatto, dot-to-rar-mi. Universidad Complutense de Madrid, ay mami, ay papi. Non ci credete? Be’ neanche io. E sia chiaro non ho alcuna intenzione di vantarmi, questo non è un post vanaglorioso in cui tento di affermare il mio potere di maschio bianco privilegiato, ma la cosa (l’evento come lo chiamo io) mi ha fatto riflettere e ho pensato di condividere qui i risultati di questa seduta-fiume psicologica.
Già, perché una delle poche cose buone che mi hanno insegnato questi dolorosi sei anni di studio – dico “poche” e “dolorosi” perché è stato realmente un percorso molto traumatico, basta fare una semplice ricerca su Google per scoprire che ansia depressione e PhD sono tre paroline che vanno spesso a braccetto (ma questa è un’altra storia) – è stata quanto sia faticoso esporre un proprio pensiero.
Come ci si forma un’opinione? Un’idea, un’ipotesi su un argomento, tema, subject, matter, asunto, sujet, Fach, Eins Zwei Polizei, o quel che vi pare?
E lo chiedo soprattutto perché mi pare di essere in un periodo storico nel quale ci è costantemente chiesto di schierarci e di esprimerci su qualunque cosa, ma non del tipo se sia meglio la carbonara o la amatriciana, no signora mia, intendo temi più pericolosi, divisivi, polarizzanti e polarizzati, guerre processi penali dibattiti politici.
Partiamo da un presupposto fondamentale. Nell’Università contemporanea vigono ancora schemi mentali di stampo medievale: spesso, per rafforzare un proprio punto di vista, che sia un’opinione o una vera e propria teoria, si fa ancora ricorso, e ampiamente direi, ad argomenti di autorità: cioè che conta non è solo la parola di chi ha detto qualcosa in precedenza su quel dato argomento, ma anche la sua importanza politica, la sua stazza accademica potremmo dire, la quale offre automaticamente un assist (di quelli belli, alla Pirlo, non quelle ciofeche alla Jorginho) all’idea che vogliamo sviluppare.
Un giorno, quando ero ancora uno studente e stavamo tra i banchi di una lezione di storia greca a discutere le problematiche della cosiddetta invasione dorica, il professore del tempo, Pietro Vanniccelli, si trovò improvvisamente a dover difendere le idee del suo predecessore, nientepopodimenoche Domenico Musti (insomma: un grande, uno che ha una pagina Wikipedia per intenderci, massima espressione di fama e potere), le cui idee, galeotti i più recenti ritrovamenti archeologici, dovevano essere sottoposte a una leggera ricalibrazione: e ricordo che disse qualcosa del tipo (parafraso, in questo momento sto ricordando come un reduce in uno di quei film di guerra con la voce fuori campo) “… e questo è il motivo per cui, anche quando sbagliano, ‘i grandi’ debbono sempre essere letti, perché anche in quel momento, il modo e il processo con cui sono arrivati a quell’errore, le diverse catene di pensiero che l’hanno generato, comunque ci dicono qualcosa di importante”.
È una pezza lo so. Mi sono ritrovato spesso a dover subire rimproveri perché “non devi offendere nessuno Davide”, cita quello, cita questo, “non importa se sei d’accordo con loro o meno”, eccetera eccetera. Può sembrare frustrante all’inizio (e lo è). Eppure questa premessa mi serve per allacciarmi al nocciolo della questione. Come ci si forma un’opinione?
Una delle sfide più difficili che ho affrontato durante il percorso di dottorato è stata quella di scegliere attentamente l’argomento o tema della mia tesi. Non è stato facile, uno po’ per svogliatezza (il mood era Brusco quando cantava L’erba della giovinezza), e un po’ perché il mio campo di studi (la storia archeologia e antropologia del Messico) non è che si presti perfettamente alla proliferazione di idee innovative.
Ma alla fine ce l’ho fatta, e ora che l’ho trovato posso perfino usare una di quelle frasi fatte che tanto piacciono alle mamme, tipo mio figlio è completamente “padrone della materia”, “c’ha due c… che je fumano”, o cavolate del genere. Vabbè, fatto sta che negli ultimi tre anni mi sono ritrovato a leggere studiare e approfondire qualsiasi testo sia stato scritto al proposito, centinaia di autori diversi, una miscellanea eterogenea di lingue e opinioni, senza soluzione di continuità. So cosa dice quello, cosa pensa quell’altro, cosa dice quello di quell’altro e viceversa, se lei ha baciato lui o lei ha baciato me, mon amour, amour.
Purtroppo, ora che mi sto facendo vecchio, e con enorme ritardo rispetto alla media, mi rendo sempre più conto di come non esistano mai soluzioni facili. Non basta presentare un tema ed esporne le sue idee principali per farsi una chiara opinione. Serve tempo studio e un costante confronto con l’alterità, con chi la pensa diversamente da noi. Per questo ogniqualvolta un dibattitto presenta le sopracitate caratteristiche potremmo dire che è inquinato in partenza.
Cosa ne pensi? Spesso la domanda non è reale ma il più delle volte capziosa, posta per tendere una trappola e così la risposta è data solo per polarizzare, per creare consenso o dissenso, a volte fare clickbait, generare continua polemica, sterile ovviamente.
E i meccanismi che vedo sono sempre gli stessi. Qualcuno dice per primo una cosa falsa, inesatta, decontestualizzata, cazzari in malafede come direbbe Zerocalcare, mentre uno stuolo di clacchisti ripete a pappagallo quelle informazioni così da orientare il dibattito. Peccato che 10 volte su 10 quelle informazioni risultino parziali, o comunque non veritiere, in poche parole false, ma intanto la frittata è fatta.
Per questo per difenderci da tutto ciò, per resistere all’ondata dilagante di vuoto che avanza (mi immagino i meteoriti all’epoca dei dinosauri), ai furbetti che tentato di raggirare, ai programmi televisivi che disinformano più che informare, l’unico consiglio che mi sento di dare è: studiate studiate studiate. Solo così si forma un’opinione.