Canzone di notte
A volte sogniamo per fuggire, a volte per restare senza sapere dove. Ed è una dannazione.
Faccio lo stesso sogno da un po’. Sono di fronte alla fontana di Trevi e non so con chi non so per cosa e non so perché, ma è una notte densa, che cola tempere da un pennello sospeso nel cielo, come un miele tirato su col cucchiaino e lasciato cadere, una notte felliniana, ma non di quelle alla Dolce vita, è più un’atmosfera da Luci del varietà, e infatti ora che ci penso la piazza non ha fontane, ma alcuni scalini di una chiesa, una notte come quelle di qualche anno fa, quando ancora potevi andare per il centro e trovare un angolino in cui stare in disparte, e magari la luna si riflette sui marmi bagnati di umidità, e lasci che l’aria ti solletichi un po’ la pelle, che ti penetri attraverso i pori, la respiri, e per un breve attimo, forse per qualche secondo, senti di appartenere, di far parte, di partecipare a non sai neanche tu bene cosa, ma ti sembra una danza che ticchetta sui sanpietrini stanchi di secoli, una bossa nova elettrica, tromba e chitarra, chitarra e tromba, come se sotto quei blocchetti che calpesti ci fossero nascoste milioni di sinapsi in comunicazione tra loro.
Ecco ora ricordo dove stavo andando. Verso la macchina che ho parcheggiato da qualche parte, lontano verso il fiume, la camicia un po’ fuori dai pantaloni, fumando una sigaretta, anche se addosso l’odore del fumo non riesce a scacciare quello della festa, e il ricordo della musica ammortizza lo scalpiccio solitario dei passi, così che quando guardi per assicurarti di stare camminando – per un attimo t’è venuto il sospetto di levitare – t’accorgi della macchia sulla scarpa e t’accorgi – o forse no, non sarebbe corretto dire t’accorgi, perché accorgersene vorrebbe dire avere consapevolezza, mentre l’immagine colpisce la mente come in sogno, senza chiedere permesso – di aver rovesciato un po’ di gin tonic quando per sbaglio hai urtato quella ragazza e hai pensato cazzo che bella ma poi te ne sei andato senza dire niente perché tanto.
Ma poi finalmente eccola davvero, brilla fontana di Trevi, di quelle luci gialle che solo a Roma, e allora sì che è una notte da Dolce vita, e se chiudo gli occhi potrei essere anch’io un Mastroianni, con il completo scuro e la cravatta, lo sguardo scuro anch’esso e magnetico, un’altalena fra il disincanto e la malinconia. E allora, sogno, chissà come sarebbe, poter essere un altro, diverso, qualcuno sicuro di sé, irresistibile, avere sempre qualcosa di interessante da dire, e poi togliermi le scarpe, la macchia di gin sulla tomaia, posarle a terra e avanzare a piedi scalzi, scavalcare il bordo della fontana («Stiamo sbagliando tutto») e abbandonarmi, farmi cullare dalle sue acque appiccicose, e dopo esserne stato battezzato rinascere come un novello Cristo unto di scarichi di grasso e sudori turistici («Davide ma chi sei tu?»), e quindi tornare a quella festa, ordinare un altro drink, voltarmi, cercare lo sguardo della ragazza e poi.
Continuo a camminare, costeggiando il fiume e la lunga fila dei platani sul Lungotevere. Una coppia appoggiata ai muraglioni degli argini sacrifica alle acque ciò che rimane di una bottiglia di vino guardandone il liquido sanguigno tingere il nero della notte. Ho letto da qualche parte che il platano è un albero che si scorteccia regolarmente, riuscendo a tollerare l’inquinamento più degli altri, lo stress e il trambusto della vita cittadina, e mentre attraverso le sue arcate riverenti ripenso a tutte quelle volte che anche noi ci scortecciamo, lasciando per strada frammenti di cellule, scaglie di cheratina, lacerti d’anima per difenderci da un altro inquinamento, rimpiazzando gli strati d’epidermide come assurdi chirurghi improvvisati, e come in fondo queste orrende mutilazioni altro non sono che il più grande atto d’amore che possiamo verso noi stessi, come se per salvarci non avessimo altra scelta che consumarci fino all’osso, fiamma che divora fiamma, legno che diventa carbone. E fanculo all’entropia.
E quindi, dicevo, faccio questo sogno – sempre lo stesso – ormai da un po’. Sono di fronte alla fontana di Trevi e non so con chi non so per cosa e non so perché, ma è una notte densa, come quella che riesco quasi a vedere dalla finestra nonostante la luce della lampada, una notte felliniana. E se ho provato a dare un senso non credo di averlo capito. Non ho capito se al centro c’è il mio costante senso di inadeguatezza o questa eterna tentazione di lasciare tutto e andare. Ma so che quando esco di casa e per uscire metto le scarpe e non vedo nessuna macchia sulla tomaia mi sento scomodo.
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Che bello ciò che scrivi e come lo scrivi... Ciao Marcello! ❤️