Sottolineature
Il ritrovamento casuale di un vecchio libro lasciato nella credenza. Ricordi che affiorano oltre ai profumi. E un segno che proprio non si vuole cancellare.
Mentre il mondo di Substack impazza sulla questione Ipnocrazia, il mondo “reale” implode dietro ai dazi e le borse crollano, e il mio inutile, piccolo mondo si sgretola sul come declinare gli inviti di Pasquetta e allo stesso tempo conservare le poche amicizie rimaste, ecco che proprio quando si dovrebbe assecondare l’invito di Gramsci e combattere la fetida piaga dell’indifferenza, mi rifugio, con una puntualità e una prevedibilità che la mia psicologa definirebbe quantomeno inquietanti, in un solipsismo letargico, un abbandono simile a quello dello studente di Perec, in un rifiuto alla vita che sa di patologico e che mi vede assumere come da copione l’ormai nota posizione brevettata da Linus, un lenzuolo in testa, le serrande abbassate, la luce appena necessaria per leggere quel vecchio libro che non stavo cercando ma che ho trovato per sbaglio nella credenza, fra alcuni barattoli della Valfrutta e un pacco di Gocciole, e che avevo dimenticato lì da non so quando.
E in quella sacca amniotica di completa solitudine che ti sei creato aprire quel libro. Ritrovare improvvisamente un vecchio te. Nelle orecchie delle pagine. Nelle sottolineature. Nei segni impercettibili che hai disseminato qua e là. Nei brevi, laconici appunti scritti frettolosamente. Una frase di dubbio, un commento, un’integrazione. Ecco, vedi? Qui s’affaccia un punto interrogativo, qui una parantesi graffa s’aggrappa tremolante all’inizio del paragrafo, mentre guarda quest’altro, che fa da pendant a un “cfr.” microscopico un nome che ora non mi dice più niente e una data. Chissà…
E invece no. Ora ricordo. Ricordo cosa ho pensato. E che quel pensiero un tempo ha fatto parte di me, che l’ho cullato come un bene prezioso, e al ricordarlo sorrido. Sorrido perché mentre fuori piove penso che mi manca quel ragazzino che non si nascondeva ancora sotto le lenzuola e s’illudeva di aver capito qualcosa della vita (“Sono un genio!” c’è scritto in caratteri cubitali a pagina 97, alla fine di una breve osservazione), mentre adesso la sola idea di uscire di casa mi paralizza come se ad aspettarmi sulla soglia del portone ci fosse Mario Giordano che mi fissa urlando: «È uno schifo!».
Leggi anche: C’eravamo tanto amati
Più sfogliavo quel vecchio libro più mi rendevo conto di quanto quelle tracce lasciate su di esso parlassero di me. Man mano che rileggevo, che inumidivo l’indice per girare ansioso le pagine, ricostruivo una persona che avevo dimenticato, una persona che un tempo era stata me, che aveva agito, pensato, amato e odiato attraverso il mio corpo, lo stesso me che adesso è un qualcosa diverso, eppure in qualche modo lo stesso, derivato dall’accumulo naturale, dal deposito, di migliaia e migliaia di pagine, e formato strato dopo strato dagli anelli concentrici di tutti i libri letti finora e fino a poco prima che scrivessi “dagli anelli concentrici di tutti i libri letti finora” (sì, sono nel mezzo della lettura di Cărtărescu, non rompete), come un flip-book la cui destinazione fatale, la sua gloriosa immagine finale, coincida perfettamente con la mia figura.
Poi, quando a un certo punto ho provato a cancellarla, una sottolineatura, è successa una cosa che non mi aspettavo. Più la osservavo più non capivo perché l’avessi fatta, dato che il contenuto della frase mi sembrava abbastanza superfluo o comunque non meritevole di godere di quella comoda mensola d’appoggio. Ho preso quindi la gomma, e con ingenua sorpresa ho notato che il tratto di matita non ne voleva sapere di cancellarsi. Ho tentato e ritentato, ma niente! Allora, ho immaginato che era come se la mia anima si fosse ormai impressa in quella linea e non volesse (o non potesse, non lo so) andare via, come se stesse resistendo all’oblio che le volevo imprimere, aggrappandosi con tutte le sue forze alle fibre della pagina: «Hey, sono io! Non mi riconosci? Sei tu… siamo noi!». Una fotografia in simboli del mio essere, l’effimera grafite trasformata in diamante, nel cristallo adamantino del mio scheletro levigato dalla carta vetrata della psiche.
Leggi anche: In cerca dell’anima
È stato solo dopo un bel po’ che sono riuscito finalmente a cancellare quella sottolineatura. Fuori aveva smesso di piovere e la città mi appariva contornata da un alone terso di struggente malinconia. Accostandomi alla finestra potevo vedere il brulicare di tante formichine che piano piano provavano a riaffacciarsi dalle loro tane confortevoli fatte di divani Ikea e televisori al plasma. Ho guardato verso il basso. Ai trucioli di gomma accumulati disordinatamente come una polvere rituale sull’ara ardente del libro. Ho sparso quella libagione a terra, liberando le parole dalla loro prigione di grafite. Quando ho visto che anche l’inchiostro si era sbiadito, lasciando un nido di parole monche e frasi spezzate, mi sono rimesso sotto la coperta, trattenendo le lacrime, un senso di mancanza.
Ti sei perso le ultime novità della newsletter?
Non c’è problema! Ti basta andare qui per trovare l’archivio con tutti i numeri usciti:
Il tempo passa, ma ciò che siamo stati rimane. E per fortuna succedono cose che ce lo ricordano, anche quando proviamo a cancellarne le tracce.
uno dei motivi per cui non mi piace prestare i libri è proprio questo: sottolineo e annoto i libri come fossero il mio diario, il che rende la prima lettura molto personale e le successive riletture molto interessanti (dove con interessanti intendo raccogliere uno spettro di reazioni che va dalla commozione al cringe al "ma che cosa ti passava per la testa?")