C'eravamo tanto amati
Secondo solo al pianerottolo, l'androne è un coacervo di emozioni e sentimenti, un luogo fatato dove tutto può succedere. Anche l'irreale.
Per chi tentasse di tracciare un profilo psicologico partendo da ciò che scrivo in questi brevi momenti di condivisione, una facile soluzione sarebbe quella di immaginare una persona piuttosto spigliata, amicale, e perché no, anche solare nel suo modo di abitare questa misteriosa valle di lacrime e sangue, questo meraviglioso pendolo che oscilla tra noia e dolore e che comunemente chiamiamo mondo. Vero? Sbagliato. Niente di più lontano dalla realtà.
Miracoli del web.
La verità è che nella vita di tutti i giorni sono un asociale, parlo poco e generalmente non voglio essere disturbato, del tipo che appena mi squilla il cellulare la prima cosa che penso è: “chissà ora chi è che rompe i coglioni” (spoiler: 9/10 mia madre). Insomma il più classico dei misantropi, un Cnemone post litteram, un Carl Fredricksen privo di canizie, un aspirante Thoreau. Un atteggiamento che a dirla tutta non mi ha mai comportato particolari problemi.
Almeno fino all’altro giorno.
Ero con la mia compagna, stretto a lei nel mio cappotto di lana, le spalle incurvate per vincere il freddo, a braccetto in una patetica posa che potrebbe ricordare la copertina di The Freewheelin’. Stavamo uscendo dall’androne del palazzo quando a un certo punto – un piccione tubava da qualche parte –, ecco i passi di un’altra coppia. «Ciao!» ha sorriso lei, facendo da pendant alla mia totale indifferenza incarnata in quel momento da un mutismo assoluto.
«Ma che fai, ti pare che non saluti? È maleducazione!» «Dai babe, non ci ho fatto caso, anche meno» «Ma sei scemo? Ma tu hai capito che cos’è un androne? Un androne è il centro degli assi cartesiano, il luogo di incontro dello spazio-tempo, varco liminale fra ciò che è possibile e l’irrealtà. Ecco perché la signora D. non mi saluta più brutto rincoglionito»
Non che avessi niente contro quei due, ci mancherebbe. Ma era vero. Qualcosa doveva cambiare. E così quando l’altro giorno sono uscito di casa per andare al Conad, mi sono sentito come quella volta quando da bambino ho provato a nuotare senza braccioli (o era andare in bicicletta senza rotelle? Non ricordo. In ogni caso: una grande emozione). Pensavo quasi di averla scampata quando proprio all’ultimo una tenera vecchietta è comparsa dal portone d’ingresso:
«Buonasera!» «Eh? Come dice? Non ho soldi da darle, mi spiace» «No, ho detto buonasera! BUO-NA-SE-RA!» «Ah! Buonasera, buonasera»
Poteva andare meglio, è vero. Ma a dirla tutta per essere la prima volta non era stato così male. Stranamente poi, avevo provato un leggero brivido, come se qualcosa di caldo mi fosse corso lungo la schiena pizzicandomi infine all’altezza del coccige. Zinc! Come una stilettata dartagnanesca. Cosa poteva essere? Ansia? Paura? Forse eccitazione? Poteva essere… No ma che dico. Poteva essere piacere?
La cosa più sorprendente è che il cambiamento si era rivelato subitaneo, improvviso, repentino nella sua velocità di esecuzione. Dovevate vedermi come ero tutto un profferire di «Buongiorno», «Buonasera», «Salve», «Prego, le tengo la porta?», «Ma è suo? Che carino, anche mio padre ha un bastardino… No, si figuri. E che sarà mai un po’ di pipì sui pantaloni?», per l’orgoglio della mia compagna che finalmente poteva mostrarsi a testa alta per le scale del palazzo. E quindi eccomi mondo, mi sono aperto e ora ti accolgo! Anzi, ti parlo!
Ma così come ogni sinusoide ha le sue creste e le sue onde, ogni libro di Fabio Volo la sua svolta drammatica, ogni droga il suo lato oscuro, così anche questa luna di miele non scevra da un certo esibizionismo doveva inevitabilmente finire con un uxoricidio.
Avrà avuto all’incirca la mia età (il fatidico “mezzo del cammin di nostra vita”), o almeno così potevo supporre dal poco che riuscivo a vedere, i lineamenti coperti da un cappellino cremisi dei Cleveland Cavs, il bavero tirato all’altezza del mento, la stessa sciarpa dell’Upim che ho anch’io avvolta intorno al collo. Avevo notato già allora le coincidenze, ma non riuscivo a spiegarmi quella ritrosia. A un mio «Salve», per la prima volta era corrisposto un silenzio pesante, che aveva avuto il solo beneficio di invertire l’inclinazione del mio sorriso trasformandolo in un ghigno storto.
Non poteva non avermi sentito. E comunque qualsiasi dubbio era stato fugato un paio di giorni dopo, quando a un nuovo incontro era seguita la stessa identica indifferenza. E così la settimana successiva e altre volte ancora. Il mio mondo si andava sgretolando e la sfera perfetta che tenevo fra le mani, quel globo di neve pieno di amore e affetto che tanto avevo ammirato, si trasformava ora in una palla di sabbia arida e ardente, pronta a disfarsi fra le mie mani non prima di aver lasciato sull’epidermide i segni infausti del suo passaggio.
«Ma dai Da, sarà stato solo un caso, figurati se ce l’ha con te!»
Ma non volevo sentire ragioni e così alla fine ho deciso di affrontarlo. Ho aspettato tutta la mattina che uscisse, appostandomi appena fuori dal portone di modo che non potesse sfuggirmi. Potete immaginare quale fosse l’emozione quando finalmente l’ho visto arrivare, la visiera scolorita, la sciarpa dell’Upim, quel suo strano modo di camminare che ricordava un paso doble e che mi era tanto familiare. Dove l’avevo già visto? Che fosse qualcuno a cui un tempo avevo commesso un torto e non mi voleva più parlare?
Nonostante fossero appena le 14, era una giornata buia e le tenebre quasi indecifrabili. Un piccione tubò. Ebbi l’impressione di aver già vissuto quel momento. L’uomo uscì dall’androne per venirmi incontro. Quando si tolse il cappellino, un terrore improvviso mi scivolò nelle viscere e un sudore appiccicoso cominciò a inumidirmi la fronte. Era molto peggio di quanto potessi immaginarmi. Mi sorrideva, restituendomi nella sua pupilla cinerea il mio volto di pietra, lo stesso che mi trovavo di fronte. Solo allora, finalmente, compresi. Quell’uomo ero io.
(La foto nel thumbnail è di Jack Hunter su Unsplash.)
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Praticamente la mia versione maschile 🫣