Una biblioteca particolare
Chi ha detto che per leggere un libro bisogna per forza andare in libreria?
All’inizio è successo per caso. Il giorno in cui mia nonna ha cominciato a stare così male da non riuscire più a muoversi dal letto. «Riposo assoluto» ha detto il dottore. «Stavolta ce la siamo giocata» ha aggiunto mamma con un velo di tristezza.
Quando fortunatamente le cose sono migliorate, nonna mi ha fatto segno di avvicinarmi e mi ha detto con un filo di voce: «Ma me lo porti un libro da leggere?»
A casa scorrevo i volumi con gli occhi, sorridendo al ricordo di una frase letta in un vecchio racconto di Borges: “Come tutti coloro che possiedono una biblioteca, Aureliano si sapeva colpevole di non conoscerla completamente”, così che quando ho afferrato Il faraone d’Olanda, estraendone la costina turchese scuro fra il pollice e l’indice della destra, riuscivo a dare una spiegazione alla mia sorpresa, quasi la mano avesse agito da sola guidata da una sua personale volontà.
Le ho dato il libro poco più tardi, non riuscendo tuttavia a nascondere la delusione quando sul comodino lucido della camera, nella vecchia edizione degli Struzzi, ho scorto una copia consunta de La Storia campeggiare solitaria sull’ovale ligneo del mobile, portata, evidentemente, da mia sorella.
«Tieni, F. ti ha portato questo» mi ha detto allungandomi una copia di Quattro galline di Polzin, «dice che lo devi leggere assolutamente. Quello lascialo qua, poi lo leggo».
Dopo qualche giorno, quando sono tornato per vedere come stava, non ho potuto fare a meno di notare come il mattone di cotto turchese firmato Abdolah fosse scomparso, offerto in prestito a fantomatici vicini i quali a suo dire avevano contraccambiato lasciandole qualche classico dalla loro libreria: Smith, D’Avenia, Coelho, Hesse, L’opera al nero di Yourcenar che ho prontamente fregato e che volevo leggere da tempo.
«Mi è piaciuto proprio Il faraone d’Olanda» mi ha detto. E dopo aver sbirciato il colore livido che stava assumendo il mio volto ha aggiunto: «Non ti preoccupare, appena l’hanno finito me lo riportano, tranquillo».
Superfluo annotare come la cosa sia andata avanti per un po’. Con la differenza che ogni volta che tornavo la pila di libri accumulata sul comodino non faceva che aumentare, spodestando con la sua mole amorfa e pericolante alcuni dei feticci più sacri a mia nonna, fra cui la dentiera rosea immersa nel bicchiere colmo di Polident, il piccolo saturimetro bianco, la preziosa copia del The best of di Amedeo Minghi giunta direttamente dagl’anni ’90.
Stava diventando troppo. Eppure l’effettiva percezione di ciò che stesse realmente accadendo, di quale fosse la concreta dimensione di questo apparentemente modesto sistema di scambio preindustriale, era a quel tempo ancora ben lungi dall’essere da me pienamente compresa, cieco incosciente che avanza a tentoni anelando l’abbacinante luce della valle di Giosafatte, finendo per ritrovarsi fra gli effluvi mefitici della Geenna.
Ma ormai era troppo tardi. Inutile tenere le fila dei libri che avevo prestato e non mi erano mai tornati indietro, o di quelli che, al contrario, avevo preso in prestito e mai riconsegnato (mentre digito sulla tastiera posso vedere esattamente di fronte a me la costina notturna di Yourcenar e percepire allo stesso tempo le gote allargarsi in un incosciente ghigno di soddisfazione), sicché ho cominciato a segnare su un taccuino i titoli scomparsi, sperando di dare un freno alla dispersione inevitabile della mia già sparuta biblioteca.
Andando a memoria, riuscivo a ricordare di essere a credito di non meno di un sestetto di libri compreso Il faraone, accanto al quale, nell’inchiostro lucido della stilo asciugato sulla carta usomano del taccuino, avevo momentaneamente appuntato un enigmatico punto interrogativo, soprattutto dopo che a una mia prima richiesta i vicini di mia nonna mi avevano guardato inorriditi, addossando ogni responsabilità al portiere dello stabile, a loro dire nuovo proprietario – e qui il lapsus era stato accolto da uno dei due con un leggero pestone sul piede dell’altro – del libro.
«Scusa no’, mo vabbè che va bene tutto, ma è un mese che ’sto libro non me torna indietro, che dovemo fa’?»
«Ma stai tranquillo, mo te lo riportano su. Senti ma puoi andare a fare qualche giro?»
Dicono che quando Paolo si convertì sulla via di Damasco aveva appena udito la voce del Signore rivolgersi a lui placida e severa nella luce abbagliante del mezzogiorno siriano. Per me, la definitiva folgorazione assunse il roco suono della voce di Micchelino, il pizzicagnolo di via Oreste Tomassini, che con una mano mi stendeva tre etti di Parma tagliato sottile mentre con l’altra mi restituiva la copia sporca del faraone unta di grasso e illuminata dalla luce intermettente del neon impolverato.
Mi muovevo, in una geografia allucinante in cui i limiti del quartiere avevano assunto le sembianze di un’enorme libreria a cielo aperto. Alle poste, in fila per pagare una bolletta, un Cacucci mi veniva riconsegnato insieme alla ricevuta; al forno, il mezzo chilo di Terni nel sacchetto spargeva un po’ di farina avanzata sul Saramago appollaiato lì di fianco; la kentia lussureggiante del fioraio lasciava trasparire dal terriccio un Tolstoj appena di sbieco.
Al ritorno, mentre percorrevo l’androne con le buste della spesa diretto da nonna, non ho potuto fare a meno di notare il portiere che seduto sulla sedia malamente impagliata del gabbiotto leggeva un libro dall’aria familiare.
«Ciao A.! Che leggi?»
«Ma niente, mi hanno portato ’sto libro, L’aleph, lo conosci? C’è questo racconto, “I teologi” che è fuori di testa, senti qua: “Come tutti coloro che possiedono una biblioteca, Aureliano si sapeva colpevole di non conoscerla completamente”. Bello no?»
(La foto nel thumbnail è di L’Odyssée Belle su Unsplash.)
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L’orrore che ho provato leggendo della sugna che imbratta la copertina de “Il Faraone d’Olanda” non riesco a descriverlo, chiamate cardiologia per favore, sto avendo un mancamento.
Alla frase «Non ti preoccupare, appena l’hanno finito me lo riportano, tranquillo» ho avuto un mancamento