In cerca dell'anima
Spesso paragonati allo specchio delle nostre emozioni più profonde, nondimeno gli occhi possono rivelarsi i più crudeli impostori.
Un paio di settimane fa, ho assistito a un incontro presentato da Riccardo Falcinelli (grafico e teorico del design) all’interno della cornice di Libri Come 2025 e intitolato Come si guarda un volto. Prendendo spunto dalla pubblicazione del suo ultimo lavoro, Visus (Einaudi 2024), Falcinelli ha cominciato mostrando il volto di un Gesù creato con l’intelligenza artificiale, un ovale “classico”, identificabile da quelle poche, semplici caratteristiche che ormai associamo automaticamente alla sua figura: il capello lungo, morbido e ondulato alla Antonio Zequila, un incarnato brunito come quello di zio Santuzzo in agosto, una semplice tunica azzurra. Infine, quasi invisibile, un ultimo dettaglio a completare la scena: un riflesso bianco nella pupilla. Una luce, un leggero chiarore, l’anima.
Proprio questa caratteristica è stata nel tempo al centro di una lunga diatriba, che oltre a impegnare l’adolescenza del giovane Falcinelli e dei colleghi al tempo degli studi, ha interessato, filosoficamente e materialmente, artisti di ogni epoca e luogo, da Fidia a Ingres, da Thomas Lea e il suo Thousand-yard stare a Dürer, fino a Topolino. Come può un’immagine, che sia una statua, un dipinto, una fotografia, restituire quel lucore, quel brilluccichio che ci umanizza e ci vivifica, ci dona profondità e intelligenza nel suo senso più elementare, che è quello di intendere e capire, comprendere e sentire?
Racconta Falcinelli di come un giorno, per ragioni che ora non ricordo, si ritrovò a dover fotografare alcuni animali a un museo di storia naturale, e di come gli fu consigliato, per dare l’illusione che questi fossero vivi, di inumidirsi un dito e di passarlo appena sul bulbo oculare dei vari esemplari lì presenti. In questo modo, l’umor vitreo tra la retina e il cristallino sembrava risplendere ancora, aumentando l’illusione ottica e donando nuova vita all’animale.
Se l’immagine di Gesù creata con l’IA presenta quel riflesso, quel puntino bianco che solitamente occupa un angolino della pupilla, è perché statisticamente, l’algoritmo alla base del gigantesco database del programma di turno è formato per la maggior parte da immagini che quel riflesso ce l’hanno. Quando pesca nell’oceano quasi infinito delle sue possibilità cercando di assecondare le nostre richieste, l’IA tenderà quindi a riprodurre l’idea, o in questo caso l’immagine, che rappresenta la media dei vari fattori in gioco. E se il 99% delle immagini caricate nel suo database mostra quella determinata caratteristica, ecco che il nostro Gesù non potrà esimersi dall’averla.
Poche ore dopo, sull’autobus diretto verso casa, riflettevo su quanto avevo appena ascoltato, assorto in quell’assenza in cui spesso sprofondiamo quando ci perdiamo di colpo nei nostri pensieri, in quel mondo evanescente e fatato inaccessibile a chiunque ci stia intorno. È stato quindi solo dopo un po’ che ho notato la mia compagna fissarmi insistentemente, un’espressione dubbiosa e interlocutoria dipingerglisi sul volto: «Sai, ora che ti guardo bene, non vedo nessun riflesso nell’occhio… Che strano! Sarà che sei senz’anima!» ha concluso ridendo.
Quel commento buttato lì, così come si buttano per strada le briciole del pane per i piccioni, o i granelli di sabbia quando si vuole imitare una clessidra col pugno della mano, aveva avuto l’effetto di incutermi uno strano timore, un’inspiegabile sensazione di scomodità, come se al piede avessi una scarpa di un paio di numeri più grande. Arrivato a casa sono corso subito in bagno, fiondandomi senza neanche togliere il cappotto di fronte allo specchio.
Potete immaginare l’orrore! A prima vista riconoscevo perfettamente il mio viso. Le rughe che lo incorniciano, il naso a patata, la bocca sottile, le sopracciglia folte e arcuate a fare da contrappeso al perimetro ellissoidale dell’occhio. La sclera, un albume pallido contornato di venuzze rossastre, l’iride capricciosa che dal marrone vira in sfumature imprecisate di verde, la pupilla nera come una notte senza stelle.
Nera sì, nient’altro che nera. Nonostante le luci, i riflessi, e un’intera boccetta di collirio da 0,5 ml.
Doveva sicuramente esserci un errore. Effettivamente lo specchio di casa è vecchio e non nascondo di condividere con Borges una certa ritrosia per questi oggetti che hanno spesso l’abitudine di mistificare la realtà. Correvo impazzito, in preda a un cieco furore, chiedendo a chiunque incontrassi per strada di guardarmi negli occhi e dirmi se per caso riuscisse a scorgere qualcosa, un barlume un riflesso un qualunque segno di vita.
Non erano di maggiore aiuto amici e parenti, i quali alle mie preoccupazioni sempre più pressanti – «Dimmi la verità, pensi davvero che io non abbia un’anima?» – rispondevano il più delle volte scrollando le spalle o dandomi le risposte più inaspettate, che andavano dal: «L’ho sempre sospettato» di F., al «Ah! E io che pensavo lo sapessi!» di G., per finire con «Amore, ma io ti accetto lo stesso» di mia madre fra una boccata di sigaretta e l’altra.
Più il tempo passava più l’ossessione assumeva i contorni amorfi della paranoia. In biblioteca, sfogliavo disperato vari volumi cercando di trovare conforto nelle parole astruse della filosofia. È stato durante uno di questi momenti di follia che mi sono imbattuto in una vecchia edizione in ottavo delle Passioni dell’anima di Cartesio – la copertina in marocchino scuro lucida alla luce fioca della piccola lampada da tavolo –, in cui si afferma che il centro dell’anima sia nella ghiandola pineale.
“Il principale luogo dell’anima […] è una piccola ghiandola situata al centro del cervello, da cui gli spiriti animali si diffondono nei nervi per andare nei muscoli, e così muovere il corpo in modi differenti.”
E aggiunge:
“Questa ghiandola è la parte principale del cervello nella quale l’anima esercita le sue funzioni più particolari.”
Eccola finalmente, una scintilla di salvezza, la mia Isola che non c’è pronta ad accogliermi felice. Mentre scrivo queste righe, fuori albeggia e la borsa con il cambio (un paio di mutande, una maglietta pulita, l’ultimo numero di One Piece) mi guarda indifferente dalla sedia della cucina. Tra poche ore mi sottoporrò all’intervento al cervello che sancirà la definitiva conclusione di questa storia. È vero, l’esempio del dottor Faust mi bussa alle tempie, mi ammonisce da presso martellandomi il cervello. Se per piacere può stare lontano dalla ghiandola pineale sarebbe meglio, sapete com’è, non vorrei avere brutte sorprese.
(La foto nel thumbnail è di Jorge L. Valdivia su Unsplash.)
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