Cosa resterà di questa newsletter
Una breve riflessione che tenta di rispondere a un pressante dilemma contemporaneo: Perché leggiamo?
Non saprei dire cosa mi è preso ultimamente con ’sti titoli ispirati a vecchie canzoni. Sarà una fase, probabilmente niente di cui preoccuparsi, ma spero comunque sia una cosa passeggera, perché si sa come va, è un attimo a lasciarsi prendere la mano, soprattutto nel mio caso, e non vorrei riempirvi la casella di posta con l’intera compilation rivisitata del Festivalbar blu 1999, quella che iniziava con Por arriba, por abajo di Ricky Martin per intenderci (che pezzo dio santo).
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Ad ogni modo nelle ultime settimane pare di assistere ovunque ci si giri a manifesti casi, più o meno confessati, di persone affette da Oblivion (me compreso). Ci aggiriamo per casa come zombie, spaesati, con le braccia che vagano a tentoni, gli sguardi persi, riempendo di appunti e liste varie qualsiasi superficie a disposizione: calendari, bloc-notes, lavagnette magnetiche, fogli di carta igienica, glabri strati di epidermide.
Ne ha parlato recentemente Melissa Kirsch in un articolo del New York Times, paragonando con molta efficacia la sua memoria all’hard drive di un computer:
It feels as if my hard drive is full. I’m reading and watching and listening to so much content that it seems I’m running out of disk space.
E non è solo per un mero fattore anagrafico. Certo, sicuramente almeno per alcunə di noi l’età c’entra qualcosa. Ma non è solo quello. Ascoltiamo, leggiamo, guardiamo, scrolliamo, facciamo incetta di qualsiasi tipo di contenuto disponibile consumandolo con la stessa ingordigia con cui azzanniamo i tegolini a colazione (no? sono l’unicə?), a volte per reale interesse, a volte per FOMO, a volte per lavoro.
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Quanto spesso abbiamo letto un libro e poi ripensandolo ci siamo accorti di averne dimenticato non solo le sfumature più minute – i nomi dei personaggi, i singoli intrecci, i vari dialoghi –, ma persino i contorni più ampi, come la trama o in alcuni casi addirittura il titolo?
As I went through The Times’s recent list of the 100 best books of the century, I was gratified by how many I’d read but wondered if a book still counted if I couldn’t remember much about it.
Vana consolazione. Perché cosa significa realmente “contare” per un libro, uno spettacolo, un’esperienza, se poi non riusciamo a ricordarla? Una delle risposte plausibili, continua Kirsch, può forse trovarsi in questo breve saggio di James Collins, in cui l’autore descrive libri del quale non ricorda niente, ma di cui nonostante ciò conserva un’impressione, un’atmosfera, magari un’immagine particolarmente evocativa.
Sono d’accordo. Ancora oggi, seppur l’abbia letto ormai 15 anni fa e non lo ricordi più con precisione, percepisco ancora distintamente l’effetto che mi fece leggere al tempo Il barone rampante, tanto che se ci ripenso gli angoli della bocca cominciano automaticamente ad allargarsi in un sorriso. Mi ricordo in particolare una scena, Cosimo sull’albero ad ascoltare il padre che severo gl’intima di scendere e di riprendere la normale vita a palazzo: «La ribellione non si misura a metri» gli dice. «Anche quando pare di poche spanne, un viaggio può restare senza ritorno». Al che Cosimo annoiato risponde: «Ma io dagli alberi piscio più lontano!»
Collins suspected, as I do, that the books he can’t remember must have had an effect on his brain anyway, that the experience of reading and engaging with the texts must have changed him in some deeper way, leaving “a kind of mental radiation – that continues to affect me even if I can’t detect it.”
In effetti quando leggiamo un libro, e poi un altro, e un altro ancora, non facciamo altro che tessere una ragnatela, una vasta rete di connessioni che si estende nel nostro cervello e ci permette di unire tanti puntini diversi fra loro. E se togliessi anche solo un libro da questa rete, cosa cambierebbe? Assolutamente nulla. Nessun libro è fondamentale, ma ognuno contribuisce a modo suo ad allargare la rete, aumentando la nostra capacità di creare collegamenti.
E quindi? Dovremmo leggere allo stato brado, consumando qualsiasi cosa ci passi fra le mani senza fare distinzioni? Dipende. Perché spesso succede che più leggiamo e più i nostri gusti si affinano. Impariamo non solo a scegliere le letture che meglio si adattano alla nostra persona, ma anche a riconoscere cosa vale la pena leggere e cosa no.
«Un lettore di professione è in primo luogo chi sa quali libri non leggere; è colui che sa dire, come scrisse una volta mirabilmente Scheiwiller, “non l’ho letto e non mi piace”», ironizzava Manganelli, evocando un semplice ma efficace metodo per non perdere tempo.
Pretendere di leggere un libro, ascoltare un podcast o una lezione, guardare un film d’essai o una banale serie tv sperando che questa marchi a fuoco la nostra anima per sempre è una pia illusione come credere che un giorno George R. R. Martin finirà di scrivere le Cronache del ghiaccio e del fuoco. Spesso per sedimentarsi le cose hanno bisogno di tempo e di costante dedizione. Specialmente i libri, che non possono essere ridotti a beni di consumo usa e getta.
Non so cosa ne pensiate voi (ma mi piacerebbe sapere la vostra opinione nei commenti), ma io, che come avrete capito amo moltissimo le citazioni, in questa discussione sono dalla parte di Nabokov:
Curiously enough, one cannot read a book: one can only reread it. A good reader, a major reader, an active and creative reader is a rereader.
Ecco come ricordare un libro!
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Da ragazzo leggevo per il piacere di leggere. Adesso, lo ammetto, leggere non me ne dà più molto, lo faccio - me lo impongo? - come un esercizio fisico, per allenare un muscolo, o un esercizio tattico scacchistico, perché mi servirà dopo. A volte leggo perché non ho voglia di scrivere ma vorrei farlo (anche qui, mistero), e leggere me la fa venire. E poi, mi sono accorto, leggo come se stessi cercando. Cosa, non so.
Vengo dal futuro per dire che ho recuperato questo numero (assieme agli altri) e che mi ha come sempre colpito la leggera lucidità con cui affronti un tema importante per noi lettori all’epoca di Internet: cosa ci rimane dopo tutto questo processare contenuti, e in particolare, libri? Non lo so, non ho risposte chiare dentro di me. Forse è proprio per far rimanere qualcosa che ho iniziato a scrivere di libri? Per attaccarmi a quello che resta? Congelare l’attimo? Mettere ordine nel caos e per questo agevolare il salvataggio nel mio hard disk? Può essere. Concordo con chi dice che spesso è questione di impressione/aura/sensazione. Aggiungo: restano pezzi della persona che sono diventata durante quella lettura.
Ps. Sogno un giorno di essere fiera proprietaria di un bassotto di nome Ottimo Massimo (: