Tu chiamale se vuoi prospettive
Una vecchia passione sopita mi ha ricordato un estivo pomeriggio di giugno e il consiglio di un amico.
Quand’ero più giovane mi divertivo a suonare la chitarra. Non giriamoci intorno ed evitiamo immaginifiche motivazioni legate a una qualche supposta sensibilità artistica. Ho iniziato per le stesse ragioni addotte dal dottor Cox per giustificare la sua laurea in medicina: donne, soldi, potere e donne. Solo che come in quei video Instagram vs Reality la suddetta realtà mi ha spesso visto seduto (o dovrei dire malamente accasciato) sui marciapiedi di San Lorenzo a suonare al vento o al massimo per il diletto di qualche ubriaco. Un po’ tipo il suonatore Jones.
Tipo.
Non che non ci abbia provato sul serio. Provate a immaginare
outfit: camicia di flanella a quadrettoni beige, jeans skinny e Converse ai piedi;
look: capelli lunghi alla Kurt (solo castani e ricci), sguardo rigorosamente corrucciato, una Lucky spenta lasciata penzolare tra le labbra;
necessari: pomeriggi interi passati a provare per l’amena felicità dei vicini e del mio relatore universitario che non è mai riuscito a spiegarsi il perché di tutti i miei ritardi (ora lo sai Sergio).
Come potete immaginare nulla di tutto questo è mai servito a niente. Ancora oggi il giro più impegnativo che riesco fare è quello di Songbird – ma prima devo essermi scaldato una buona mezz’ora – o, se proprio proprio sono in giornata, il riff iniziale di Seven Nation Army. Insomma, ero a un vicolo cieco e avevo bisogno di un aiuto se volevo migliorare.
Fu così che un giorno andai da Marco, il mio amico musicista (no, non come me, intendo un musicista vero, di professione), a suonare un paio d’ore e fare un po’ di pratica. Faceva caldo, doveva essere giugno o giù di lì; dalla veranda di casa sua il campanile della chiesa di Santa Maria Immacolata svettava per un buon quarto sui tetti circostanti. Prendiamo il caffè, tiriamo fuori le chitarre e proviamo a fare qualche esercizio di riscaldamento: triadi, pentatoniche, qualche facile assolo alla B. B. King.
È successo dopo aver sbagliato l’ennesimo fraseggio. Non ne ho potuto più: mi sono alzato di scatto, ho lasciato andare la chitarra e ho esclamato furente: “Basta! Ho le mani troppo piccole, non riesco ad arrivare così lontano!” mimando nel frattempo un tratto del manico impossibile da raggiungere, fra il 3° e il 7° tasto della corda di mi cantino.
Ora, dovete sapere che le mie mani sono tutto il contrario di ciò che si definisce elegante e aggraziato. Sono tozze (paiono delle salsicce), corte, e come se non bastasse mi mangio le unghie ogni volta che posso spargendole in giro. Insomma, io non so quale divinità abbia concepito nella sua infinità saggezza la mia persona, ma è certo che al momento di farmi le mani deve essersi probabilmente appisolato o lasciato distrarre da qualcosa di molto importante tipo il dissing Fedez-Tony Effe.
Però la risposta che mi diede Marco quel giorno non la dimenticherò mai. Ricordo che mi guardò calmo e che altrettanto rilassato mi disse: “Ah bello, non pensare alle tue mani come una debolezza. Vuol dire che puoi muoverti più rapidamente tra i tasti, essere più agile e veloce. Pensa a Django, stava senza ’na mano!”
Lasciamo da parte l’iperbole e concentriamoci sui fatti. Per lə pochissimə che non lo conoscessero Django Reinhardt è stato uno dei più grandi chitarristi jazz manouche che sì, a causa di un incidente capitatogli quand’era bambino, perse quasi del tutto l’uso della mano sinistra. Tuttavia, nonostante la menomazione, riuscì a sviluppare una tecnica unica, tanto che nei pochi video in cui suona dal vivo le dita sembrano volare sulla tastiera con la stessa agilità di un ragno che si arrampichi su una parete.
Sono sicuro che se uno ci si mette di questi esempi se ne possono trovare a bizzeffe, e non solo in ambito musicale. Si tratta in fondo di trasformare, anzi no, neanche trasformare, ma cambiare radicalmente prospettiva, e quindi smettere di considerare quella che può essere ritenuta generalmente una debolezza come una mancanza per vederla invece come un’opportunità.
Perché molte di queste debolezze spesso non sono altro che validi punti di forza. Basta solo saperli vedere. Eppure uscire da certi canoni può essere estremamente difficile, molto più che arrivare a guardare un’intera puntata di Temptation Island senza mai cambiare canale (il mio record è 7,34 min). Sperimentare la nostra unicità, esaltare i nostri difetti piuttosto che nasconderli, dovrebbe essere un esercizio continuo che comincia con la pratica di un costante anticonformismo e finisce con l’allontanare ciò che viene universalmente considerato “Normale”.
E non lo so, mi sembrava un bel pensiero da condividere in questa prima newsletter ottobrina (ma fatemi sapere nei commenti che ne pensate). Io da parte mia mi sono fatto coraggio, ho tirato fuori l’ukulele che ho a casa (la chitarra l’ho lasciata dai miei), ho guardato le mie mani da gremlin, preso un bel respiro, e cominciato a suonare:
Taaaalking to the songbird yesterdaaaaay
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Ad esempio qui racconto l’esperienza di quando ho visitato la mostra TOLKIEN. Uomo, Professore, Autore, voluta dal ministro della Cultura Sangiuliano e promossa dal Governo Meloni;
Mentre qui parlo di infodemia e comunicazione, in dialogo con Infocrazia di Byung-chul Han.
Ho avuto anche io la mia fase chitarra. La canzone del sole ovviamente, poi zombie dei cranberries e basket case dei green day. Do you have the time to listen to me whine About nothing and everything all at once? Ho capito presto di non avere talento e di non avere pazienza, ho ancora la chitarra nella mia cameretta di ragazza, magari la regalerò a mio figlio un giorno
Al liceo crocifissi la mia compagna d banco e suo fratello, che suonavano la chitarra, perché me lo insegnassero. La prima cosa che imparai a suonare fu La canzone del sole, regina di ogni falò estivo di quei tempi. Fu seguita da poco altro, in tutto 5-6 pezzi. Uno era What's Up delle 4 Non Blondes (e questo ti svela l'anno mesozoico). Mi accorsi proprio su questo pezzo che non sapevo suonare e cantarci sopra. L'una oppure l'altra cosa. Continuai a insistere per un bel pezzo contro ogni evidenza, con risultati scarsi e molta frustrazione. Poi mi trovai un altro talento nel quale fare schifo (scriverle, le canzoni). La chitarra ce l'ho ancora, prende polvere dai miei pure lei. Non ho mai voluto disfarmene perché me l'aveva regalata mio padre per i 15 anni. Accarezzo l'idea di regalarla a mia nipote, quando avrà l'età o la curiosità per provarci.