Fuga
Cosa succederebbe se una lontana illusione non fosse in fondo ciò che è? Se una conciliante realtà non fosse altro che un orrendo incubo?

Poco fuori dall’Ashmolean Museum di Oxford, dopo aver percorso la mole allungata di St John Street – casette a schiera fra il cotto e il rosa, un accenno di bovindo al piano nobile, tetti piatti, grate alle finestre e porte che variano dal blu di Prussia al beige caffelatte –, si trova l’imperfetta rotondità di Wellington Square con il giardino omonimo racchiuso al suo interno da un basso cancelletto e circondato da siepi altrettanto basse, bosso viburno e lauro ceraso, mentre al centro il prato all’inglese è interrotto qua e là da vibranti maggiociondoli e qualche tiglio sparuto.
Era ottobre e già l’aria dell’Oxfordshire cominciava a tingersi di quella bruma grigia e pesante che sembra gravare sospesa sulle cose, fino a posarsi delicatamente sulle foglie giallastre dell’autunno cadute a terra. Non mi dilungherò oltre e non vi dirò del motivo per cui mi trovavo là. Vi basti sapere che ero con S., seduto su una delle due panchine che occupa il parco, discutendo animatamente su quanto avessimo appena visto, sulle ampie sale coperte di arazzi e quadri e mezzobusti del museo, trovandoci d’accordo praticamente su niente.
Se per S. un paesaggio del Turner non era degno di “spicciare” una prospettiva del nostro Canaletto, io al contrario vedevo nell’uso sapiente del colore, nella disposizione dei chiaroscuri diffusi come vapori biancastri un segno dell’estrema sapienza e abilità dell’uomo e del pittore; oppure, di fronte a un cammeo di chiara ascendenza ellenistica potevamo litigare per ore nell’interpretazione del personaggio principale, il timido Tiberio per il mio esuberante amico, il prode Germanico per il mio cuore di leporide.
Ma ciò che più ci tenne in disaccordo quel giorno fu un dipinto poco conosciuto, attribuito dalla critica ufficiale – gli “idéologues” come li chiamava lui, non senza un brivido di beffarda ironia – al tardo Paolo Uccello e intitolato, postumo, Caccia notturna. La disposizione delle figure nello spazio, la prospettiva vertiginosa verso l’unico punto di fuga, la rappresentazione massiccia dei garresi e dei posteriori equini, tutto faceva pensare a una semplice scena di caccia, uno spaccato di vita quotidiana che non doveva essere estraneo a una corte rinascimentale del XV secolo.
Tuttavia, mentre esponevo questi pensieri, il volto di S. cominciò improvvisamente a oscurarsi, e mentre si accendeva una sigaretta, assaporando con calma oltre alla combustione del tabacco anche gli umori umidi della bruma screziati dagli ultimi raggi di sole, cominciò a parlare così:
«Innanzitutto la foresta non è significante ma significato. Metafora più che sinestesia. In quel buio che ci avvolge e che emerge come un destino senza scopo c’è un’assenza che non è natura ma Umanità».
(E qui la bocca si era aperta con enfasi, assecondando ogni sillaba con calcati accenti grammatici e mandibolari. Da ruminante navigato.)
«E in questo spazio che non è reale e che potrebbe estendersi all’infinito e in fondo ci inghiotte il motivo centrale non è la Caccia bensì la Fuga. Ma come, non lo vedi? Persino i cani l’assecondano. Nella teoria esatta e ossessiva degli alberi, fra le felci e le graminacee che si ripetono con grazia quasi matematica, fra le chiome sospese sui rami evanescenti come caschi di alieni vegetali c’è una Realtà che è simbolo pulsante dell’Assurdo. E ciò nonostante, malgrado la sua orrenda inconoscibilità, e a dispetto del Nulla che la sua stessa esistenza rappresenta, l’Abisso incarnato da quel buio si prospetta comunque meta ben più anelata».
Stavo per rispondere, pronto a ribattere a tono, ma il mio amico sembrava aver già inteso le mie intenzioni e fu lesto nell’anticiparmi:
«No! Non raffrena il cavaliere sulla sinistra, incita. E dietro di lui in secondo piano, l’uomo dal tocco rubicondo invoca disperato la sua preghiera al cielo. Guarda come il corridore al centro dalle ghette rosse e lo stiletto legato in vita suona il corno invitando tutti alla ritirata, affannosa, cieca, salvifica».
«E credi poi che il fiume alla destra sia semplice descrizione, espressione del naturale, nota paesaggistica di colore? Non essere sciocco, guarda come il suo percorso non devia ma tira dritto quasi rifuggendo anch’esso l’ordine che gli è stato imposto. Hai visto mai un fiume così? Talmente perfetto nel suo alveo tirato a squadra da sembrare artificiale? Ricordati:
La Natura è un tempio dove incerte parole
mormorano pilastri che son vivi,
una foresta di simboli che l’uomo
attraversa nel raggio dei loro sguardi familiari».
Quando ebbe finito di parlare il sole era ormai calato e fra gli alberi cominciava a diffondersi una notte innaturale. Stavo fermo sulla panchina, riflettendo su quelle parole quando mi parve all’improvviso di sentire un rumore di zoccoli e lontano un latrare sommesso ma continuo, come un affanno che non sa terminare. Una strana inquietudine – o forse fu solo semplice suggestione? – cominciò a impossessarsi di me, rendendomi nervoso. Oltre le siepi riuscivo ancora a scorgere la straniante ripetitività delle case a schiera, uguali, sempre uguali, nient’altro che uguali. Non ne potei più e alzandomi di scatto chiesi al mio amico:
«Si è fatto tardi, vogliamo andare?»
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Questo racconto mi ha fatto ripensare a Il richiamo del corno di Sarban che ha in copertina La caccia selvaggia di Franz von Stuck, che è un altro topos (e pure un altro periodo/tecnica/tutto) ma vallo a dire alla mia testa che fa associazioni casuali.