… ma permettimi di dissentire su quest’ultimo punto, mio caro Hurley, giacché non è il desiderio di rivalsa che mi muove – non sono un Dantès qualunque –, né alcun tipo di acrimonia nei tuoi confronti; è spirito d’emulazione, tensione poetica, la volontà di offrire con la penna un nostalgico omaggio al nostro comune collega Shade. Lasciamo da parte per un momento l’astio reciproco e le passate incomprensioni e stringiamoci cordialmente la mano. Dici che non puoi pubblicare la mia raccolta, che i versi da me scritti ricordano fin troppo – “quasi al limite del plagio”, così hai detto – i quattro canti di Fuoco Pallido, se non fosse per i continui rimandi alla mia cara Zembla…
Spulciando in alcuni vecchi bollettini di ormai chiuse riviste accademiche (tra cui il Wordsmith Gazette, «Il più antico periodico universitario degli Stati Uniti»), ho scoperto che il nostro amico Kinbote ebbe varie difficoltà nel pubblicare una sua raccolta di poesie (Fulcro Pelvico), osteggiato in ciò da un certo nugolo di azzimati baroni a lui ostili. A nulla servirono le pressanti lamentele o la minaccia di rivolgersi a una fantomatica “discendenza dei Gradus”, di cui non sono riuscito a rintracciare l’origine.
Ah la poesia… questa misteriosa forza gelatinosa che ci attira a sé con le sue promesse e le sue blandizie. Alzi la mano chi non è mai incappato in tale ginepraio letterario! Uno fra tutti: Roberto Bolaño, quando dopo aver fondato in Messico il movimento infrarealista insieme all’amico di sempre Mario Santiago Papasquiaro e ad altri giovani poeti (era il 1975), si ritrovò contro mezzo establishment letterario del Paese.
Per capire parte della sua poetica, la raccolta di poesie I cani romantici (edito Sur nella traduzione di Ilide Carmignani) è un buon punto di partenza. Scritte tra il 1980 e il 1998 mentre Bolaño era in Catalogna, queste si dividono in due filoni principali: quelle più vicine all’infrarealismo e al suo passato messicano, e quelle più mature, di argomento vario. In questo numero ci occuperemo solo delle prime, pur consapevoli della natura miceliare dell’opera di Bolaño alla quale faremo spesso riferimento.
I PASSI DI PARRA
Ora Parra cammina […] Le Fiandre Indiane che bruciano laggiù in lontananza Un incendio circondato di orme […] Oh le Fiandre Indiane L’interminabile corridoio del nostro scontento Dove tutto ciò che è stato fatto sembra disfatto […] Oh le Fiandre Indiane della nostra lingua schizofrenica […] La rivoluzione si chiama Atlantide Ed è feroce e infinita Ma non serve a nulla Mettiamoci in cammino, allora, latinoamericani In cammino in cammino Cerchiamo i passi smarriti Dei poeti perduti […] Là dove si sentono solo i passi Di Parra E i sogni di generazioni Sacrificate sotto la ruota E mai raccontate
Se ogni allievo ha bisogno di un maestro che lo guidi nei suoi passi, Nicanor Parra fu per Bolaño aio incendiario1. Suo connazionale ed esponente di quell’“antipoesia” che rifiutava ogni registro alto, Parra trovò in Pablo Neruda il bersaglio principale della sua critica, il quale con i suoi versi mieteva un successo dietro l’altro, ricoprendo per il Cile anche incarichi pubblici di primo piano.
Utilizzando una semplice proporzione algebrica potremmo dire che per gli infrarealisti Neruda stava al Cile come Octavio Paz stava al Messico. Non che sia una sorpresa, dato che è lo stesso Bolaño a ribadire più volte il suo disappunto per il poeta messicano, quando ad esempio nei Detective selvaggi fa dire a Juan García Madero cose del tipo: «Siamo pienamente d’accordo sul fatto che bisogna cambiare la poesia messicana. La nostra situazione è insostenibile, fra l’impero di Octavio Paz e l’impero di Pablo Neruda. In altre parole, fra l’incudine e il martello».
A una poesia elevata e solenne c’è quindi la volontà di sostituire una poesia popolare, che possa raccontare con una «lingua schizofrenica» «i sogni di generazioni sacrificate sotto la ruota e mai raccontate». Basta arcaismi dunque, se poesia si deve fare che sia poesia bassa, colloquiale, quasi volgare.
SONI
Sono in un bar e qualcuno chiama Soni Il pavimento è coperto di cenere […] Come un uccello come un solo uccello arrivano due anziani Archiloco e Anacreonte e Simonide Miserabili rifugi del Mediterraneo […] Comunque io ricordo solo rossore la parola vergogna dopo la parola vuoto Soni Soni! L'ho sdraiata supina e le ho sfregato il pene sul ventre […] L'uomo non cerca la vita, ho detto, l'ho sdraiata supina e gliel'ho messo dentro di colpo Qualcosa ha scricchiolato fra le orecchie del cane Crac! […] E Soni si è allontanata dal gruppo […]
In un bar dal pavimento ricoperto di cenere (frutto dell’incendio della poesia di regime), si aggira una ragazza chiamata Soni, il cui nome altro non è che un’abbreviazione per sonido, parola spagnola per “suono” («un suono terribile, nato dall’aria e dal mare» si legge nella poesia Autoritratto a vent’anni). Assecondando la metafora, assistiamo allo stupro della ragazza mentre un «Crac!» scricchiola fra le orecchie di un cane (è il poeta, ma lo vedremo dopo). Fanculo alla dittatura del suono, alla forma apollinea e alle strutture metriche immortali dei vari Archiloco Anacreonte e Simonide. D’altronde, al seminario di poesia di Julio César Álamo descritto nelle prime pagine dei Detective Selvaggi, nessuno sa cosa sia una pentapodia, un nicarcheo, un falecio o un tetrastico – o meglio, «L’unico poeta messicano che sa a memoria queste cose è Octavio Paz (il nostro grande nemico), gli altri non ne hanno la più vaga idea». (E non possiamo nemmeno dimenticare l’esilarante scena in cui García Madero, a bordo dell’Impala che sfreccia rapida per il deserto del Sonora, interroga Arturo Belano e Ulises Lima su cosa sia un saturnio o un dimetro giambico catalettico.)
Non c’è spazio per la vergogna. Quella di Bolaño e dei suoi compagni è una vera e propria rivoluzione (seppur, come visto ne I passi di Parra, questa rivoluzione si chiami «Atlantide» e si configuri quindi come un’utopia), «feroce e infinita», un atto di violenza, un lavoro da artiglieri.
GLI ARTIGLIERI
In questa poesia gli artiglieri sono insieme. Bianchi i loro volti, le mani allacciate intorno ai corpi o nelle tasche. Certi hanno gli occhi chiusi o guardano per terra. Gli altri ti scrutano. Occhi che il tempo ha svuotato. Tornano a loro dopo questo intervallo. Il nuovo incontro gli restituisce solo la certezza della loro unione.
Ma per abbracciare la poesia infrarealista è necessario anche uno sforzo di volontà («solo pelle e volontà», L’asino), un gesto di coraggio («La poesia, la più coraggiosa di tutti», Resurrezione; «È il coraggio, forse l’unica virtù reale», La mia vita nei tubi di sopravvivenza), per vincere la paura e accostare «la guancia alla morte» (Autoritratto a vent’anni), bagnata da un sanguinoso giorno di pioggia.
SANGUINOSO GIORNO DI PIOGGIA
Ah, sanguinoso giorno di pioggia, che fai all'animo dei derelitti?, sanguinoso giorno di volontà appena intravista […] i tuoi tremori sono di piacere, giorno rivestito con le potenze della volontà […] scalzo in mezzo al sogno che si muove dai nostri cuori fino ai nostri bisogni, dall'ira al desiderio: cortina di giunchi che si apre e ci sporca e ci abbraccia.
Ricapitolando, abbiamo visto come il modello a cui si ispirarono Bolaño e gli infrarealisti fu l’antipoesia del poeta cileno Nicanor Parra, che andando contro i modelli “sacri” di Neruda e Paz si macchiò dell’antico crimine di parricidio (I passi di Parra). Lo stile dei due maestri fu abbondonato in favore di una poesia prosastica, che rifiutava le metriche musicali preferendo un linguaggio colloquiale e discorsivo (Soni). Ma lungi dall’essere un traguardo semplice, questo rifiuto presupponeva un profondo atto di coraggio (Resurrezione), perfino violento (Gli artiglieri, Sanguinoso giorno di pioggia), che in spregio alla morte inseguisse «un sogno innominabile, Inclassificabile, il sogno della nostra gioventù, Cioè il sogno più coraggioso di tutti» (L’asino).

Nelle prossime poesie de I cani romantici, ci addentreremo nel profondo del Messico di Bolaño, un palcoscenico diviso fra le luci del D.F. e gli aridi deserti del Sonora, popolato da detective e assassini, e da tutti quei personaggi che ritroviamo sparsi nella sua produzione in prosa, come Mario Santiago, la prostituta adolescente Lupe o il Verme delle Chiamate telefoniche.
Continua…
«Le Fiandre Indiane che bruciano» alludono al Cile, così chiamato nel Seicento a causa delle continue guerre che vi si combattevano.
Ciao!
Il post mi ha fatto venire in mente il caso della poesia dialettale italiana, per esempio calabrese, che spesso appare piu' "terrena" e meno, appunto apollinea di quella degli autori consacrati della letteratura italiana 'standard'. Questo sia per le tematiche affrontate, sia per il linguaggio che era (ed è, per le sopravvivenze), appunto, dialettale.
Ero curioso di sapere sulla lingua di Bolaño e degli infrarealisti: il registro piu' popolare che si riscontra nella poetica emerge anche a livello linguistico? Nella traduzione non sembrerebbe, ma magari nell'originale sì.
Grazie!