Rubo ma non troppo
Il recente caso Kamel Daoud ha scatenato polemiche che si rinnovano puntualmente. Eppure la letteratura ha le sue ragioni che la ragione non conosce.
Recentemente la piattaforma di streaming Netflix ha riproposto in un’ennesima versione televisiva un adattamento de Il talento di mister Ripley, serie tratta dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith in cui per la prima volta viene presentato il personaggio di Tom, scavezzacollo newyorkese che tira avanti arrabattandosi tra piccole truffe e vari metodi ingegnosi per campare (se non l’avete vista ve la consiglio, è una bomba). Succede che a un certo punto, dopo essersi trasferito in Italia per incontrare un tale Dickie e convincerlo a tornare in America (spoiler: in realtà poi l’ammazza), Tom si ritrovi improvvisamente a vivere un’altra vita, appropriandosi illegalmente della sua identità per fingersi non solo chi non è, ma adattando il suo carattere e la sua persona a quella dell’amico scomparso. Un inganno stilistico all’interno del grande inganno letterario: praticamente il più perverso degl’incubi platonici.
Che poi l’idea di fingersi qualcun altro per ingannare gli altri è un escamotage vecchio come il cucco, che partendo da Ulisse si gratta uno stinco all’altezza del Decameron, fuma una sigaretta nei pressi dell’Otello, e arriva infine ai giorni nostri mangiando un hamburger con Paul Auster e Harry Potter. L’importante, parrebbe, è avere alla fine una storia da raccontare, non importa come questa sia arrivata a noi, se attraverso il puro ingegno dell’invenzione o un manoscritto trovato accidentalmente a Saragozza o ancora, chissà, direttamente dalle pallide mani di un abate francese.
Cito di sfuggita questi esempi per riallacciarmi al recente caso che ha coinvolto Kamel Daoud, giornalista e scrittore che è stato da poco denunciato con l’accusa di aver utilizzato senza consenso la storia privata di una donna algerina, Saada Arbane, paziente della moglie psichiatra di Daoud, per scrivere alcune parti del suo ultimo libro, Houris, che a inizio novembre ha vinto il prestigioso premio Goncourt, il riconoscimento più importante per la letteratura in lingua francese (ci sono dietro anche motivi politici, ma non è di questo che mi interessa parlare oggi).
Il libro racconta la storia di una ragazza muta a causa di un taglio alla gola subito durante la guerra civile degli anni Novanta in Algeria (tema di cui peraltro nel Paese è vietato scrivere), soffermandosi e descrivendo abbondantemente dettagli che secondo Saada Arbane Daoud avrebbe potuto conoscere solo dalla moglie, dalla quale lei era in cura dal 2015 e che avrebbe così violato gli obblighi di riservatezza della professione: le sue ferite, la sua cannula per parlare, i suoi tatuaggi, il suo parrucchiere, ma anche il suo rapporto con la madre e il suo desiderio di abortire.
«Quello scrittore ha rubato la mia storia raccontata alla moglie psichiatra», gracchiano i giornali con gli usuali strilli sensazionalistici, mostrandosi indignati e scioccati, domandosi come sia possibile arrivare a tanto, a un vero e proprio atto di sciacallaggio messo in moto dalla trasgressione di un codice deontologico sacro e inviolabile, incarnato dal segreto professionale. E sempre in Francia era accaduto qualcosa di simile qualche anno fa, durante la pubblicazione di Yoga, ultimo romanzo di Emmanuel Carrère, il quale era stato accusato dall’ex moglie Hélène Devynck per aver violato un accordo che gli impediva di divulgare informazioni private. Evidentemente, potremmo dire, Devynck era perfettamente consapevole di quale fosse il punto G dell’ex marito, un bisogno imprescindibile come bere una pinta di vodka liscia dopo aver sbirciato per sbaglio alcuni secondi di Dritto e rovescio.
Eppure qualcosa del genere è accaduto anche qui, in questa newsletter, quando ho riportato come personali eventi o occasioni che mi erano stati in realtà raccontati, a volte da amici, altre da semplici conoscenti, altre ancora origliando le conversazioni di perfetti sconosciuti incontrati per caso sull’autobus o in metro. E così mi è capitato spesso di ascoltare le loro emozioni, di interiorizzarle, di respirare i loro dolori e i loro fallimenti per appropriarmene, farli miei ed espanderli, duplicarli di riflesso per trasformarli in racconto, in un coerente narrativo, in una voce diversa, filtrata dal ticchettio delle mie dita sulla tastiera del pc.
Perché potrà non piacere, ma il desiderio profondo della letteratura, un desiderio recondito, celato ma ancestrale, la sua intima e ultima vocazione, è proprio quella di rubare, di appropriarsi delle storie delle persone per scriverle, un po’ come fa un attore quando tenta di immergersi completamente in una parte rinunciando al proprio io per trasformarsi nel personaggio che dovrà incarnare. Un impulso irresistibile, che a che fare con la vera natura dell’arte, con l’espressione esplosiva di uno dei bisogni più antichi dell’uomo: raccontare. Dovremmo immaginare lo scrittore così, in un angolo buio di una stanza illuminata, intento con un taccuino in mano a riportare i dettagli della scena che gli si para davanti agl’occhi, nascosto, senza farsi vedere.
Non so cosa ne pensiate voi di tutta questa storia (ma mi piacerebbe davvero saperlo nei commenti). Io concludo dicendo che prima di pubblicarla, ho fatto leggere questa newsletter ai miei amici e alle mie amiche, mostrando loro dove avevo preso spunto dalle cose che mi avevano confessato e il modo in cui poi le avevo esposte. Inutile dire che le reazioni sono state le più disparate, seppure decisamente spostate verso gli ambiti dell’amigdala: rabbia, disgusto, orrore, in alcuni casi persino eccitazione. Mi è dispiaciuto. Chissà se posso usarle per scrivere una newsletter…
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Secondo me sta tutto nella misura, nel sapere quali linee puoi oltrepassare e quali no. Io studio per diventare psicologa e scrivo. Qui devo dire scrivo solo di me, perché è una terapia, ma nella storia che sto scrivendo mi sono resa conto di aver preso in prestito tanto da tante persone che ho incontrato. Ma non è mai una persona sola, è un miscuglio. Sono pezzetti per formare un tutto dove non ci si può riconoscere completamente, ma in parte. Nel caso che citi a mio parere la linea è stata oltrepassata anche di molto..
Se Daoud avesse prima parlato con la donna e le avesse chiesto il permesso di raccontare la sua storia, sarebbe stato un gesto molto nobile. Così invece è proprio brutto, capisco come lei si possa sentire. Vorrei poter dire che la bellezza di un'opera giustifica tutto, ma non è sempre così purtroppo.