Indagini intorno a una poesia di Ernesto Franco
A pochi mesi dalla morte dello scrittore genovese, Einaudi ha pubblicato "Lontano io", una raccolta inedita di brevi poesie.
Nello scrivere questo numero mi sento un po’ come lo scrittore messicano Juan José Arreola nei primi giorni di un dicembre di sessantasei anni fa (siamo a Città del Messico, nel 1958), seppur non abbia accanto a me alcun Pacheco a farmi da amanuense, a registrare, verbatim, le escrescenze vocali di un diaframma allampanato, le parole timide e claudicanti che presentandosi alla bocca scrutano, tra le fessure degli incisivi e qualche frammento di bolo, l’angusto passaggio dal quale affacciarsi, per abbandonare, ormai definitivamente, l’iperuranio e farsi quindi rumore.
E non perché sia affetto dal più classico dei blocchi, dall’angosciosa impossibilità di scrivere che prima o poi giunge, ineffabile, guidata dalle artritiche falangi di Atropo, ma a causa della ritmica incessante che Chronos, anziano guardingo, mi infligge strizzandomi l’occhio colpevole, mentre seduto alla meta – la gloriosa uscita di questa newsletter – mi attende ansioso sfregandosi le mani.
Si narra infatti che ormai sfinito dalle incombenze, Arreola – il quale doveva tassativamente pubblicare un libro entro una certa data per ripagare un anticipo che l’UNAM gli aveva gentilmente concesso – osservasse quella scadenza come fa un condannato, chiuso in un muto solipsismo non scevro da un certa dissociazione che lo portava a sperperare in oggetti inutili (e formaggi francesi) i pochi pesos rimasti.
E così in un giorno di dicembre – erano le nove del mattino –, Pacheco salì deciso in casa sua, e dopo aver tirato fuori carta penna e calamaio, ed essersi seduto a un basso tavolo di legno di pino, intimò perentorio a un confuso Arreola: «Non ci sono alternative. O mi detta qualcosa o mi detta qualcosa». Pochi giorni dopo prendeva vita Bestiario, capolavoro indiscusso della letteratura messicana.
Ne approfitto e colgo al balzo la pelota della letteratura messicana per affrontare –finalmente, direte voi – il tema di questa newsletter e parlare di una persona scomparsa da poco e che con questa ha convissuto e conversato per più di trent’anni: Ernesto Franco.
Per chi non lo conoscesse Ernesto Franco è stato tanto cose. Sicuramente direttore di Garzanti; senza dubbio editor di saggistica e direttore editoriale per Einaudi. Eppure per me è stato soprattutto parte di un binomio inscindibile il cui secondo termine era indissolubilmente legato alla letteratura messicana e latino-americana in generale.
Non potevo leggere un racconto di Cortázar, una frase di Rulfo, un romanzo di Sábato, senza imbattermi in una sua prefazione, di quelle che invogliano, più che allontanare, a proseguire di corsa la lettura, immergendosi a capofitto nella storia:
In un giorno imprecisato, che forse possiamo collocare con qualche ragione verso la metà degli anni Settanta, Julio Cortàzar è seduto al tavolo di lavoro. Sta preparando l’edizione completa dei suoi racconti per una casa editrice spagnola, Àlianza Editorial. […] La ripetizione meccanica dei gesti gli fa tornare alla mente il ricordo di un viaggio in Spagna di molti anni prima. Da Cordoba a Salamanca.1
Lontano io
Ora, a due mesi dalla sua morte, Einaudi ha pubblicato alcune poesie inedite che lo stesso Franco si premurò di riordinare poco prima di morire – e che sono state riunite in un volumetto intitolato Lontano io e inserito nella celebre “Collezione di poesia” –, chissà se spinto da tiresiani e infausti presagi.
Il vento dentro come un vagito Genova avara e mite; il vento fra le salite, che resiste al mito, che sala le ferite.
Si tratta di poesie composte di pochi versi e costruite intorno a due temi ricorrenti: il primo legato alla sua città natale, Genova; il secondo a un sentimento, quello della mancanza/assenza, e alla «percezione di incolmabili distanze», tanto più che invece di poesie potremmo quasi parlare di singola poesia e di molte variazioni sul tema, a volte serie (Non ho più dimora / e di te qualche rimorso / per l’ultima ora), a volte giocose (Baci a gocce / fra il sole, le isole / e le rocce).
Una poesia che dà l’impressione di essere sempre sul punto di salpare, di mollare gli ormeggi e andare lontano, chissà forse per fuggire un po’ da stessi, o forse per veleggiare verso quei lidi sudamericani tanto abitati da Franco nel passato, assecondando il carattere marinaro di una città che «s’avvita a picco, per porti, punti e punte», fra onde d’ardesia e nuvole fossili, per perdersi all’orizzonte e non tornare mai più.
Un pensiero funicolare nell'alba macaia. Nel mare, nel caldo, mi pare che Genova scompaia.
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Ad esempio qui ti racconto di com’è stato raggiungere i 100 iscritti su Substack;
mentre qui una breve riflessione su quanto sia difficile, almeno per me, dire addio alle cose, da una matita a un vecchio straccio che usavo per maglione.
Julio Cortázar, Tutti i fuochi il fuoco. Einaudi, 2014.
Mi hai molto incuriosito con queste brevi poesie di Ernesto Franco, che recupererò a breve.