Un modo semplice per sconfiggere il capitalismo
Lo scorso giovedì sono stato costretto da cause di forza maggiore ad aggiornare il guardaroba. Non lo facevo da un po'.
Appartenendo al nobile segno del cancro (nomen omen direbbe mia madre), tendo naturalmente ad affezionarmi alle persone nonché alle cose in generale, e, allo stesso modo, a covare un subitaneo rancore qualora percepisca o senta questo stesso affetto tradito, ingannato, pronto a depennare dal mio death note virtuale chiunque si renda responsabile, o anche solo sospettabile, di tale ignominiosa pratica (Ehi Da, va tutto bene? Ma certo, lasciami solo finire di appuntare una cosa… Ecco qua. Allora dimmi… Come ti senti?).
Questo preambolo, solo per dire che quando giovedì scorso ho dovuto girare per negozi e comprare qualche maglione nuovo, uno strano magone all’idea di separarmi dai miei vecchi abiti mi ha improvvisamente colpito alla bocca dello stomaco. Ma la situazione era diventata insostenibile. Non tanto per i miei amicə, quellə mi conoscono e ormai ci hanno rinunciato, tuttavia non potevo più permettermi di presentarmi al lavoro con uno stile che i più definiscono “collezione barbone di Termini”, non perché sia passato di moda, ci mancherebbe, ma perché il suddetto look rischiava di spaventare le persone e non è il caso se ci tengo ancora a portare un minimo di stipendio a casa.
Da che ricordi è stato sempre così, nel senso che è sempre stato difficile per me separarmi dalle “cose”, una posizione alquanto difficile da sostenere, soprattutto in un’epoca in cui siamo continuamente invogliati ad acquistare la qualunque. Un modo semplice per sconfiggere il capitalismo si potrebbe dire, un corollario involontario a un’inclinazione naturale che mi impedisce di separarmi dagl’oggetti più minuti, come la Faber-Castell 3H della mia infanzia, talmente ridotta al lumicino che era diventato impossibile tenerla in mano, aggrappata com’era agl’ultimi tremolanti strati d’epidermide, fra l’indice e il pollice della mano destra; o ancora la Bic 4 colori dei primi anni d’università, quella che, quando la persi fra i banchi di un’aula al secondo piano della facoltà di Lettere della Sapienza (in realtà dimenticai tutto l’astuccio… Sì, avevo un astuccio), mi fece rimanere in un mutismo selettivo per un mesetto buono (me ne regalarono un’altra. Ma io non ne volevo un’altra, volevo quella, la mia).
E come dimenticare poi la mia prima macchina, la grandiosa Natiz, una Matiz bianca a cui era caduta una stanghetta della “M”, per la facile ironia dei miei amicə che non smettevano di prendermici in giro. Anche se in realtà, la cosa veramente divertente, era che per entrare in quel meraviglioso covo di sudore adolescenziale e Arbre Magique gusto pino silvestre non c’era bisogno di chiavi – la serratura era stata completamente asportata tempo prima da qualche sfortunato ladro –, bastava fare pressione sul finestrino del guidatore perché questo si abbassasse, permettendomi di alzare la sicura e aprire la portiera (esatto, era fondamentalmente sempre aperta).
E così giovedì scorso è stato un colpo al cuore. Dire addio a un paio di vecchi stracci comodi per dare il benvenuto a un nuovo cardigan che manco mi sta bene ma fa molto uomo maturo di mezza età. Mi viene sempre difficile. Considerare gli oggetti, le cose, solo in base alla loro funzionalità, alla loro utilità immediata. In effetti, ora che ci penso, rimango sempre estremamente affascinato dalle storie che hanno questi memorabilia di uso comune. Perché sono proprio queste, a mio avviso, a far sì che un oggetto trascenda se stesso, trasformandosi da semplice bene di consumo a qualcos’altro, qualcosa che fa parte di te, un horcrux. Non so, forse sono pazzo, ma se anche voi avete qualche oggetto a cui siete particolarmente affezionatə o di cui volete condividere la storia sarò più che felice di leggervi.
Ma dicevo in incipit che sono un cancro e quindi come ormai avrete capito anche piuttosto nostalgico. Mentre scrivo queste righe fuori comincia a fare buio e l’unico pensiero che ho adesso è quello di staccare tutto, infilarmi il pigiama e buttarmi finalmente a letto a dormire. Eppure non riesco a ricordare dove sia il pigiama, forse a lavare nella cesta dei panni sporchi, o forse l’ho usato come tovaglia l’altra sera a cena. Certo, nudo a letto non posso andare. Chissà dove ho messo quegli stracci…
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Non sai quanto io possa capirti.
Tra tutte le cose, tanto per rimanere in tema, quando facevo l’università nel mio astuccio (sì, anche io avevo un astuccio. Ho sempre avuto un astuccio. Anche adesso ho un astuccio…) non dovevano mai mancare due penne fondamentali: una stilografica che usavo per prendere appunti durante le lezioni e una biro, la classica bic (il cui involucro esterno doveva sempre rimanere uguale, tanto che alla fine avevo dovuto metterci uno strato bello spesso di scotch per tenerlo insieme), che usavo rigorosamente per mettere le firme durante gli esami, ma anche per rimettere in ordine gli appunti.
Guai a non averle sempre dietro.
Le ho ancora, eh. Custodite gelosamente nel cassetto dei ricordi.
Oggi, invece, ho sempre in borsa un piccolo astuccio con tre piccoli oggetti che devo sempre avere dietro, tra cui c’è uno dei ciucci di quando mia figlia era piccola.
Sono estremamente affezionata a un discutibile (dal punto di vista estetico) fermaglio giallo comprato in un negozietto a Buenos Aires nei primi anni duemila. Un giorno l'avevo perso e mi è venuto un magone terribile, quindi ti posso capire! È con me in questo momento, ho cambiato colore e taglio di capelli un sacco di volte, ma lui è sempre lì ❤️ è plastica, quindi spero mi duri una vita!