Lo zen e il tiro con la palla da basket
Autunno è spazzare le foglie, accumularle in un angolo e goderne le sfumature. Specie se si deve liberare un campo per giocare.
Sì lo so, non è che mi sia venuta proprio bene questa parodia del più noto titolo di Herrigel, eppure devo dire che lì per lì, quando giovedì scorso mi sono ritrovato a rastrellare il solito campo dalle accartocciate foglie autunnali e ad asciugarlo da alcune pozzanghere, umido residuo della pioggia del giorno prima, le parole mi erano venute talmente naturali che, illudendomi, mi ero quasi convinto di aver avuto per una volta una buona idea, convinzione confermata dal sorriso idiota che mi si stampa sulla faccia ogni volta che immagino di aver fatto una buona pensata (non allego foto per rispetto nei vostri confronti).
Che poi il basket fosse paragonabile a una disciplina zen è una cosa di cui avevo già parlato tempo fa, in un numero incentrato sul concetto di perfezione, perché in fondo la sua pratica altro non è se non una costante tensione verso l’assoluto, “la ripetizione assidua di minuscoli gesti e movimenti impossibili da evitare” se si vuole fare canestro e interrompere – dico io – il ciclo di morte e rinascita e raggiungere così il nirvana. È insomma, per strano che possa apparire, un rito a tutti gli effetti.
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Un’idea che mi è stata confermata la scorsa settimana, quando arrivato al campo ho trovato una delle due metà occupata e l’altra impraticabile a causa delle pozzanghere e delle numerose foglie che si erano depositate a tappeto dopo un temporale. Tuttavia, prima di continuare, è bene fare qui una precisazione, dato che per i più, in generale, questo impedimento non rappresenta necessariamente un problema. Posano il loro zaino sulla panchina, danno un’ultima occhiata al cellulare, e dopo aver tirato fuori la palla cominciano infine a giocare, cercando di evitare quelle Paludi Morte con leggiadri balzi e finte degne di una Carla Fracci o di un Neo quando realizza di essere l’eletto.
Ma per altri, come Davide e i suoi fratelli, una tale condotta è inammissibile. Anche se il tempo a disposizione è poco; anche se in un attimo la prossima spazzata di vento o una nuova sgrullata di pioggia potrebbe vanificare tutto. Ho preso quindi l’asta lavavetri che c’è a disposizione e dopo aver asciugato le pozzanghere una a una ho cominciato a raccattare le foglie e a disporle ai lati del campo, aiutato dai timidi raggi del sole che ne rifrangevano i colori e sotto lo sguardo attonito dei passanti. Piano piano, lentamente. Un jardinier un après-midi de novembre, olio su tela, ca. 20x14 m. Lo zen e l’estasi del giardinaggio.
E non nasconderò come questo prendermi cura, questo preparare il terreno sul quale poi avrei poggiato i piedi e fatto rimbalzare la palla ripetutamente, tum tu-tum tum tu-tum, mi abbia dato un’intima e personale soddisfazione, un piacere quasi filosofico, atarassico nel placido rilascio di endorfine che cominciavano a insinuarsi nel corpo, e credo che inconsciamente anche il mio cervello debba aver colto qualcosa, uno di quei segreti che difficilmente si riescono a spiegare, a mettere per iscritto, di quelli che come in una seduta psicologica fiume si capiscono solo se analizzati a ritroso con l’aiuto di uno/a specialista (a me piacerebbe essere preso in osservazione da Heather Graham alias Molly Clock in Scrubs).
E chissà se poi, rileggendo compulsivamente questa newsletter, non arrivi finalmente a comprenderne il profondo mistero, il significato ultimo dietro quell’improvviso e subitaneo appagamento (spoiler: non ci sono riuscito. Ma se voi al contrario l’avete fatto fatemelo sapere nei commenti). Vorrà dire che sarà allora come in quei film polizieschi di bassa lega, dove il commissario capisce che per trovare la soluzione a un omicidio non deve far altro che tornare sui propri passi, ricominciare daccapo, partendo dall’inizio a riesaminare le prove, e quindi nel mio caso le parole di Herrigel:
E così per ‘arte’ del tiro con l’arco egli [il giapponese] non intende una abilità sportiva raggiunta più o meno compiutamente attraverso un esercizio in prevalenza fisico, ma una capacità acquistata attraverso esercizi spirituali e che mira a colpire un bersaglio spirituale: così dunque che l’arciere, in fondo, prenda di mira e forse arrivi a cogliere se stesso.
Stud!
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Io ho pensato subito a Pirsig, li ci trovi anche tutta la faccenda della qualità, che ha molto a che fare con il tuo discorso sulla perfezione. Magari quando i gomiti smetteranno di funzionare ti potrai dedicare alla manutenzione della moto🤗
Io non l'avevo colto il rimando, perché non conoscevo il libro 😄. Grazie della dritta.