A proposito di meritocrazia
Il rifiuto di tre studentesse di sostenere la prova orale può essere l'occasione per ripensare il sistema del merito scolastico; infine un professore che non dà voti.
Negli ultimi giorni ha fatto particolarmente scalpore la notizia per cui tre studentesse del liceo Foscarini di Venezia si sarebbero rifiutate di sostenere la prova orale durante l’esame di maturità, motivando il proprio silenzio con uno scritto che denuncia il disagio nei confronti dell’istituzione scolastica e la conseguente protesta contro la raffica di insufficienze ricevute durante la seconda prova di greco.
Come spesso succede, la notizia rimbalzata da una parte all’altra dei media ha alimentato le reazioni più disparate, dalle madri («orgogliose»), all’assessore regionale Elena Donazzan («Questa disobbedienza va punita»), al buon vecchio Luca Sofri che ha preso spunto dall’intera vicenda per fare una riflessione più ampia sul tema della disobbedienza civile in una specie di «paternale ai paternalisti».
I voti sono stati considerati dalle studentesse «ingiusti» e «offensivi», avendo ottenuto come unico risultato quello di far percepire l’intero sistema scolastico in modo profondamente umiliante, come se tutti gli sforzi degli anni passati fossero stati inutili e la maturità poco più che un «terno al lotto», lontana dalla visione meritocratica incarnata dal Ministero dell’Istruzione e del Merito del Governo Meloni.
Ancora una volta, un libro…
Già, la famosa meritocrazia. Esaminando l’etimologia della parola scopriamo che questa si incontra per la prima volta all’interno di un romanzo, The Rise of Meritocracy del sociologo Michael Young, una storia distopica ambientata in una società in cui il merito (definito come una somma di quoziente intellettivo più sforzo) è ormai diventato un principio cardine, sostituendo le precedenti divisioni di classe sociale e creando una società stratificata tra un’élite di meritevoli che detiene il potere e un sottoproletariato che non ha diritto di voto.
Sorprendentemente quindi, la parola meritocrazia nasce all’interno di una critica a un sistema selettivo di educazione e all’egemonia culturale e politica esercitata da determinate classi dominanti.
Del tema hanno parlato in un articolo recente uscito sul Menabò di Etica ed Economia due importanti sociologi italiani, Luciano Benadusi e Orazio Giancola, prendendo spunto dalla prospettiva di Young per poi ampliarla:
Il principio meritocratico si presenta intrecciato con una delle possibili declinazioni dell’idea di eguaglianza: le eguali opportunità. Una declinazione che implica l’azzeramento delle disuguaglianze sociali nel passaggio da una generazione all’altra, un riallineamento delle opportunità come presupposto indispensabile per una gara che si giochi unicamente sul merito […] Di qui la centralità dell’educazione, vera e propria base della società meritocratica, poiché solo dopo che la scuola ha annullato l’impatto del background socio-familiare sulle competenze (e sulle carriere educative) delle nuove generazioni, queste possono entrare nell’arena delle competizioni meritocratiche – il mercato del lavoro in primis – facendovi valere unicamente risorse personali. Su tale interpretazione si è registrato un consenso molto diffuso nel mondo occidentale, perfino in contesti culturalmente e politicamente distanti.
Una parola, molteplici declinazioni
Fin qui la teoria, il modello ideale da (in)seguire e auspicare. Ma come indicano bene Benadusi e Giancola non tutto è oro quel che luccica, e il concetto di “meritocrazia” può avere diverse declinazioni. In una visione che potremmo definire “darwinistica”:
meritocrazia non significa eguaglianza delle opportunità e mobilità sociale, bensì selezione dei migliori e perseguimento dell’eccellenza nelle varie sfere del sociale, dall’istruzione al lavoro, dall’economia alla politica, grazie a meccanismi concorrenziali. Tale visione si basa su un vizio epistemico: da un lato la sopravvalutazione dell’autonomia e della responsabilità dell’individuo e dall’altro la sottovalutazione, o addirittura il misconoscimento, dei condizionamenti derivanti dai contesti entro i quali il singolo si trova ad agire. Messe da parte eguaglianza delle opportunità e mobilità sociale, ci si limita, infatti, a perseguire la selezione dei migliori e il perseguimento dell’eccellenza nei differenti settori sociali.
Mai più voti?
In risposta a queste dinamiche si sono proposti negli ultimi anni diversi approcci alternativi che hanno avuto come obiettivo quello di superare la visione performativa della meritocrazia instauratasi all’interno dei vari gangli sociali.
In questo senso Leonardo Piromalli, sociologo e ricercatore in Scienze Sociali, ha tentato durante alcuni corsi accademici di sperimentare forme di valutazione differenti, cercando di mettere in discussione proprio il carattere performativo e meritocratico che caratterizza l’università contemporanea e restituire allo stesso tempo agency ai suoi studenti.
In uno di questi corsi la verifica dell’apprendimento era basata su cinque modalità differenti, di cui tre costituivano parte integrante del voto finale: un esonero in cui erano gli stessi studenti a valutarsi reciprocamente attraverso una piattaforma online utilizzata in aula (40%); un lavoro di gruppo incentrato sulla scrittura di un paper scientifico, la sua presentazione alla classe e una successiva critica verso il lavoro di un altro gruppo con un tema affine (45%); un’autovalutazione finale basata sulle proprie impressioni personali (15%).
L’idea di restituire agency agli studenti e contemporaneamente decostruire il mito della valutazione come atto performativo è solo uno dei possibili percorsi verso il superamento della narrazione meritocratica e dei suoi effetti perversi nell’attuale vita sociale, e sempre maggiori ricerche si stanno svolgendo in questa direzione.
Dietro ogni voto c’è una persona e la sua storia
Nel caso delle tre studentesse del liceo Foscarini di Venezia domandarsi se hanno fatto bene o male a protestare deve passare in secondo piano. Piuttosto, ciò su cui dovremmo soffermarci sono le cause per cui il voto finisce per diventare il punto di svolta delle scelte di uno studente. Nell’odierno sistema scolastico, il voto come parametro di giudizio perde la sua natura di costruzione sociale per trasformarsi nel principio regolatore al quale si piegano talenti, passioni, desideri e vere e proprie scelte.
In sostanza, alla nozione sfocata di merito va necessariamente anteposta la questione dell’abbattimento, o quantomeno del contenimento, delle disuguaglianze che condizionano fortemente la riuscita scolastica, le possibilità di mobilità sociale e i corsi di vita individuali. Nell’ambito dell’istruzione, l’attenzione dovrebbe essere rivolta primariamente a politiche per l’equità quali gli interventi di cura per la prima infanzia (poiché le disuguaglianze educative si generano in questa fase e poi crescono nel corso di vita), l’estensione e l’arricchimento del tempo-scuola e inoltre politiche redistributive a favore delle scuole e delle aree svantaggiate.
Dietro ogni voto si nascondono storie di vita, passioni potenziate o stroncate da un giudizio, mondi possibili o mondi percepiti come sideralmente distanti. Sarebbe ora di cominciare a prenderli in considerazione.
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La scuola andrebbe davvero rivista totalmente, a partire dalla brutta abitudine di molti docenti di scegliere il loro ruolo esclusivamente per avere un posto e uno stipendio sicuri.
Purtroppo, al netto di molti insegnanti che svolgono questo lavoro con dedizione e passione, c’è un sistema che fa acqua da tutte le parti e che non permette di svincolarsi da regole e vizi ormai consolidati che, invece di stare dalla parte dei ragazzi, alimentano lotte intestine che nulla hanno a che vedere con l’interesse per i ragazzi, tutti, e per il loro futuro.
Un argomento che mi tocca sempre molto perché quell’ambiente l’ho vissuto dal di dentro (da docente) e ne sono uscita sconfitta: perché a me interessavano quelle storie personali, ma per quelle, per come è strutturato il sistema scolastico, non ci può (e forse non ci deve?) essere tempo e spazio.
Dietro un voto ci sono delle ispirazioni stroncate - una storia. Premessa: ho frequentato il liceo classico, uno dei più duri d'Italia. Svolgimento: a due/tre anni dalla maturità ho iniziato a ragionare su quale facoltà avrei potuto iniziare dopo. Da sempre innamorata del mare e soprattutto delle sue creature, prendo in considerazione biologia marina. Faccio l'errore di dirlo al professore di biologia che pensa bene di passare DUE ANNI a chiamarmi randomicamente in cattedra per farmi domande a caso su qualsiasi argomento gli venisse in mente e, ogni volta che non sapevo la risposta, commentare con un "eh ma se non la sai questa come pretendi di fare biologia marina?". Arrivata all'ultimo anno, sopraffatta da versioni di greco e latino impossibili, voti calanti in matematica e fisica, una certa fatica in biologia per ovvie ragioni, un giorno gli ho risposto che non la volevo fare più biologia marina, che mi sarei iscritta a Scienze Politiche (ah...scienze delle merendine - fu il commento). Conclusione: penso sia il più grande rimpianto della mia vita. Fine della storia. (Anzi no: ogni tanto penso ancora di iscrivermi, e se non dovessi lavorare, lo farei).