Porco corpo
Albergo privilegiato dell'identità, strumento di rivendicazione sociale, manifestazione apparente dell'io. Ancora oggi questo involucro di pelle e carne ci confonde.
Nello scrivere questa newsletter vorrei fare come quegli autori che si studiano a scuola, di quelli che, per superare un argomento ardito o un passaggio particolarmente complicato, o ancora per ispirare l’estro letterario e sostenere il loro poetare, esortavano, in una specie di paracula captatio benevolatiae, l’aiuto delle muse o di altre divinità celesti, allo stesso modo di come io vorrei rivolgermi a questa fredda tastiera di questo Hp 14s-dq0xxx (che poi perché xxx non si sa, l’ho comprato da Mediaworld mica su Pornhub), sperando che possa assecondare la mia mano e aiutarmi ad affrontare il tema delicato che mi appresto a esporre.
Questioni di convergenze potrei insinuare. O di opportunità. A volte, se non spesso, pare che le due coincidano incontrandosi al medesimo stallo dove un me spaurito attende, mentre con un piede batte per terra in stile Bugs Bunny e con l’indice teso indica ripetutamente l’orologio virtuale che ha allacciato al polso (mi immagino un Casio con il cinturino blu elettrico). E quindi al centro, all’origine degli assi, recenti letture personali, interessi e studi passati si incontrano con la stessa timida e impacciata disinvoltura con cui a volte ci capita di salutare qualcun* di cui non ricordiamo più il nome («Oh, bello, come stai?»).
Questioni di convergenza, appunto. Di opportunità.
È iniziato tutto qualche giorno fa, quando, come spesso mi capita, ho aperto il Post per leggere un articolo di Alessandra Sarchi a proposito di ciò che comunemente chiamiamo corpo, su quest’abito a volte troppo stretto a volte troppo ampio con cui dobbiamo confrontarci, che muta pelle in continuazione, che soffre, che gode, che si rilassa e si tende, si ferisce si rompe si spezza e, se va bene, si rimette a posto. Ma ogni volta che il mio corpo cambia, che si trasforma, si chiede Sarchi, sono sempre io?
È una domanda che continueremo a porci, a ogni cambiamento più o meno rilevante, perché il corpo non smetterà di trasformarsi e interrogarci su quella che chiamiamo identità. Se infatti il corpo muta di forma, di stato, di funzioni e di possibilità, come è possibile ancorarvi un’idea di sé unitaria e coerente? E al tempo stesso avrebbe senso un’identità disincarnata che non sia frutto dell’esperienza corporea?
Corpo scopre corpi
Ma il corpo non esiste solo in quanto percepito in un rapporto intimo e univoco di esclusività materiale, al contrario esiste e si dà forma, si plasma, anche rispetto al tipo di relazione che ha con l’esterno e con gli altri.
A questo proposito, ad esempio, Sarchi fa un bel riferimento citando l’incipit dell’ultimo libro di Vittorio Lingiardi, in cui il primo ricordo dell’autore sulla sua fisicità si mischia inevitabilmente alla figura materna:
Il primo corpo che ricordo non è il mio, è quello di mia madre. Le sue clavicole magre, alle quali mi appendevo come una piccola scimmia. Il secondo corpo che ricordo è il nostro corpo insieme: gli abbracci, il solletico, i suoi occhi tristi o allegri, mio primo specchio. Il terzo corpo che ricordo finalmente è il mio. Le carezze, le cadute, un incidente in motorino, la pelle rosa sbucciata, l’asfalto nero, il sangue. Il dentista che mi apre la bocca, l’otorino che mi guarda le orecchie, il dottore che mi buca il braccio e il rosso che entra nella siringa.
Ma questi “altri” possono anche sfuggire dalla sfera privata e intaccare livelli più alti come il rapporto con la società. Un caso evidente di questa diversa scala di valori si vede a mio avviso ne La vegetariana di Han Kang, quando il rifiuto della protagonista di mangiare carne e decidere in autonomia come alimentare il proprio corpo si trasforma rapidamente in un parallelo rifiuto delle convenzioni familiari e sociali che la portano a isolarsi da un mondo incapace di accettare un tale cambiamento:
All’inizio era dimagrita fino ad assumere le forme nette e slanciate di un fisico da ballerina, e io avevo sperato che le cose si fermassero lì; ma ormai il suo corpo ricordava soltanto le fattezze scheletriche di un’invalida.
Tuttavia, dobbiamo ricordare come questa coincidenza dell’io con il perimetro corporeo è solo un legato della vecchia tradizione greco-latina che riguarda poco o nulla tante popolazioni del mondo. Quando i conquistadores arrivarono nel XV secolo fra i nahua della Valle del Messico questi neanche avevano una parola per dire corpo e si ritrovarono ben presto a utilizzare il prestito spagnolo (cuerpo) adattandolo alla loro lingua. A questa mancanza, si aggiungeva (e in alcuni casi si aggiunge ancora oggi) l’idea di una personalità dividuale, frammentaria, diffusa, sparsa in varie componenti spirituali come il tonal (o alter ego), rendendo così il concetto di corpo non solo obsoleto, ma inutile.
Il caso del Belgio
In un rapido excursus cronologico, fittizio, se non arbitrario, il corpo è stato teatro prediletto di numerose battaglie, palcoscenico dell’autodeterminazione personale, luogo illibato nel quale emanciparsi, affilato strumento di rivendicazione sociale e metafisica. Ne avevo già parlato in un post di settembre, a proposito della dissociazione che prova un corpo trans all’interno dello spazio-rave. Ma di casi recenti se ne potrebbero citare molti, dalla morte assistita, alla GPA, all’aborto.
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Di pochi giorni fa è invece la notizia per cui in Belgio sarà possibile per le persone che lavorano come sex worker ottenere regolari contratti di lavoro, una soluzione che oltre a concedere diritti punta a superare uno stigma ancora presente in molte fasce della società, compreso alcuni movimenti femministi. E allora, forse, mi viene in mente che prima di chiederci “Chi è (o cos’è) il corpo” dovremmo prima domandarci: “Di chi è?”.
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Che bel pezzo, Davide! Mi ha molto colpito il riferimento ai nahua (che non conoscevo) e alle componenti frammentarie dell'identità.
Il libro di Vittorio Lingiardi l'ho ordinato già da una settimana, spero arrivi al più presto dal mio libraio perché voglio proprio immergermici.