Quando il 21 aprile del 1519 Hernan Cortés sbarcò a Veracruz, sulla costa orientale del Messico, dovette far fronte a un problema di importanza capitale. Se voleva portare a termine le sue aspirazioni personali, e conquistare Tenochtitlan nel cuore dell’impero azteco, era necessario riuscire a comunicare con gli indigeni.
Fu fortunato. Venne a sapere dell’esistenza di alcuni indiani che usavano parole castigliane, deducendone così che ci fossero alcuni spagnoli tra loro. Come nota lo storico Tzvetan Todorov:
Ciò che Cortés vuole prima di tutto non è prendere, ma comprendere. Il primo atto importante che egli compie – ed è un gesto estremamente significativo – consiste nel cercarsi un interprete.
Le sue intuizioni si rivelarono esatte. Pochi giorni dopo, ad apparirgli di fronte fu un certo Gerónimo de Aguilar, un francescano naufragato anni prima sulle coste dello Yucatan e tenuto prigioniero da alcune tribù Maya da cui era infine riuscito a scappare. Del suo aspetto – un Robinson Crusoe ante litteram – ci ha lasciato un ritratto indelebile un diretto testimone di quegli eventi, il conquistador Bernal Díaz del Castillo nella sua Historia verdadera de la conquista de la Nueva España:
Lo prendevano per un indiano perché, oltre ad avere un colorito naturale bruno, aveva i capelli rasati come gli schiavi indiani. Portava un remo sulla spalla, un vecchio sandalo a un piede e l’altro attaccato alla cintura, un vecchio mantello molto consumato e delle brache ancor più logore per coprire le nudità.
Ma Aguilar parla solo la lingua dei maya, che non è quella degli aztechi che abitano il centro del Messico e che Cortés vuole conquistare. Per capire, comprendere, manca ancora un tassello fondamentale: una donna. Malintzin per gli indiani, Doña Marina per gli spagnoli, la Malinche per gli odierni messicani.
Marina fu data in dono a Cortés il 15 marzo del 1519, come schiava. Fu lei a costituire l’anello di congiunzione per comunicare con gli aztechi. Oltre a sapere il maya infatti, Marina conosceva anche il nahuatl, lingua principale dell’impero azteco, ancora oggi ampiamente diffusa e che doveva suonare più o meno così:
La catena è quindi formata, anche se all’inizio un po’ lunga e attorcigliata: Cortés parla ad Aguilar, il quale traduce in maya a Marina che a sua volta si rivolge in nahuatl all’interlocutore azteco. Il suo dono per le lingue è evidente. In breve tempo impara anche lo spagnolo, rendendosi una pedina indispensabile per la conquista.
Ciò che Cortés aveva capito, è che la conquista militare non poteva prescindere da un altro tipo di conquista: quella del linguaggio. Una relazione, questa che intercorre tra parole e potere, tra lingua e politica, evidenziata da Vera Gheno nel suo ultimo libro Grammamanti uscito per i tipi di Einaudi:
Il possesso della lingua è considerato centrale per l’emancipazione. […] Per questo, Don Milani e il coevo Paulo Freire, De Mauro stesso come pure bell hooks, hanno sempre, a loro modo, evidenziato l’importanza del possesso della parola per uscire dalla subordinazione.
Conoscere, sapere, significa per Cortés emanciparsi, uscire da uno stato di inferiorità. Dice sempre Todorov:
Si può dire che il fatto stesso di assumere, in questo modo, un ruolo attivo nel processo di interazione garantisce agli spagnoli una superiorità incontestabile.
Come si può immaginare la figura della Malinche ha costituito nel tempo un’eredità storica con la quale il Messico ha avuto difficoltà a convivere. Senza il suo aiuto infatti Cortés non sarebbe mai riuscito a conquistare Tenochtitlan. Marina non si limita a tradurre: adotta anche i valori degli spagnoli e contribuisce con tutte le sue forze alla realizzazione dei loro obiettivi. Sa cosa dire e quando dirlo, interpretando non solo le parole, ma anche i comportamenti.
Non deve sorprendere quindi se per una parte consistente del Messico la sua figura ha finito con il personificare il tradimento verso il suo popolo. Ancora una volta, sono sempre le parole ad essere protagoniste, quelle scritte, ma anche quelle cantate:
Un concetto – questo del tradimento – talmente radicato che lo stesso Octavio Paz, uno dei più importanti autori letterari del Messico, pubblicò nel 1950 un saggio in otto capitoli dal titolo Il labirinto della solitudine, tra cui uno dedicato a “Los hijos de la Malinche”, i messicani, da lui definiti hijos de la chingada, “figli di puttana”.
Chi è la Chingada? Innanzitutto è la Madre. Non una Madre in carne e ossa, ma una figura mitica. La Chingada è una delle rappresentazioni messicane della maternità. […] Doña Marina è diventata una figura che rappresenta gli indios, affascinati, violentati o sedotti dagli spagnoli. E come il bambino non perdona alla madre di averlo abbandonato per andare alla ricerca del padre, così il popolo messicano non perdona il tradimento della Malinche.
Più che traditrice Marina è stata ed è per il Messico il capro espiatorio per rinnegare un passato dal quale vuole prendere le distanze. Ancora oggi Chingada è la parolaccia che ricorre dozzine di volte al giorno sulla bocca dei messicani, nelle maniere più fantasiose e creative: Vete a la chingada, Tu chingada madre, Estoy de la chingada, ¡Me lleva la chingada!
Da un punto di vista storico Marina non si sarebbe potuta comportare diversamente. Venduta più volte come schiava, prima dalla propria famiglia a dei mercanti, e infine dai suoi nuovi padroni agli spagnoli di Cortés, dovette covare il risentimento per un destino deciso non da sé ma da estranei.
Lo ribadisce Gloria Anzaldúa, docente di Studi chicani, femministi e Scrittura creativa, che con il suo lavoro ha cercato di riabilitare tra le altre cose il concetto di mestizaje:
Il peggior tipo di tradimento sta nel farci credere che la traditrice sia la donna india che è dentro di noi. Noi, indias y mestizas, controlliamo l’india che abbiamo dentro, la brutalizziamo e la condanniamo. La cultura maschile ha fatto un buon lavoro su di noi. Non io svendetti la mia gente, ma loro me.
È curioso. Mentre Cortés riuscì in relativamente poco tempo a comprendere gli aztechi, dopo mezzo millennio il Messico sembra ancora fare difficoltà a comprendere se stesso. Tuttavia, come dice Todorov:
la Malinche è il primo esempio, e quindi il simbolo, dell’ibridazione delle culture; come tale, essa preannunzia il moderno Stato messicano e, al di là di esso, precorre una condizione che è oggi comune a tutti, poiché, se non sempre siamo bilingui, siamo tutti inevitabilmente partecipi di due o tre culture. La Malinche esalta la mescolanza a danno della purezza (azteca o spagnola).
Una lezione che Gloria Anzaldúa esalta con fermezza:
Difenderò la mia razza e la mia cultura ogni volta che vengono attaccate da non-mexicanos. Ma io non glorificherò quegli aspetti della mia cultura che mi hanno ferita o lo hanno fatto con l’intento di proteggermi. Perciò non datemi i vostri princìpi e le vostre leggi. Non datemi i vostri dèi. Ciò che voglio è fare i conti con tutte e tre le culture – bianca, messicana, indiana.
Più che biasimarla, quindi, bisognerebbe celebrarla. E allora
VIVA! VIVA! VIVA LA MALINCHE!
Ti sei perso le ultime novità della newsletter?
Non c’è problema! Ti basta andare qui per trovare l’archivio con tutti i numeri usciti:
Ad esempio qui faccio un giro in metro perdendomi fra Irlanda Turingia e il salotto di casa mentre cerco di capire qual è il modo migliore per impiegare il mio tempo;
Mentre qui prendo spunto dalla vita di Octavia Butler per parlare di ispirazione, perspicacia ed Enneagramma della personalità.
Ma che bella puntata, Davide! Non conoscevo questo episodio della Malinche come mediatrice tra culture. Interessante anche l'analisi del rapporto tra parola e potere.
Che puntata interessante! Non conoscevo la storia della Malinche, è interessante appunto che si analizzi la sua figura con gli strumenti che abbiamo oggi per capire e per interpretare. Ti ringrazio per avermi fatto conoscere questa storia, indagherò :)