In un vecchio numero di luglio ho raccontato di come un giorno, tra un un flic flac appena accennato e qualche goffa pirouette, mi ritrovai per caso a posare gli occhi su un libro di Horacio Quiroga, Gli esiliati, avvistato in una sezione dell’usato della mia libreria di fiducia, e di come, sempre per caso, mentre sfogliavo le ultime pagine ansioso di trovare una firma o una traccia che testimoniasse il passaggio del suo precedente possessore, mi imbattei nell’appendice finale, il “Decalogo del perfetto cuentista”, un breve vademecum su come scrivere un racconto.
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Ricordo che allora, quando pubblicai la newsletter, ciò che mi colpì di più furono le diverse risposte nei commenti, tra chi si dichiarava più vicinə e/o affezionatə a un determinato punto e chi, al contrario, ne preferiva un altro. In realtà, pensandoci bene, non è poi così strano. Ognunə ha le proprie idiosincrasie, ed è probabile che per motivi diversi possa sentire uno specifico punto più distante o comunque riguardarlə meno. E come spesso succede quando si parla di scrittura, può capitare che inconsciamente entri in gioco qualcosa di così personale e intimo che se sollecitato può toccare corde altamente sensibili.
Lancio il sasso, ma devo ammettere che anch’io dopo aver letto quelle pagine ho avuto la stessa reazione. Non posso nascondere ad esempio di avere un occhio di riguardo per due punti in particolare:
VI Se vuoi esprimere con esattezza questa circostanza: “Dal fiume soffiava un vento freddo”, non esistono in alcuna lingua al mondo altre parole che quelle. Una volta padrone delle parole, non preoccuparti di consonanze o assonanze. VII Non aggettivare senza bisogno. È inutile attaccare code colorate a un sostantivo debole. Se trovi quello giusto, avrà da solo un colore incomparabile. Ma va trovato.
Ecco una cosa difficile da fare (almeno per me)! Evitare di affezionarmi a quello che scrivo, a quello che faccio, perfino a quello che sono. E non per una mera questione d’orgoglio, per il semplice fatto di riconoscere che posso sbagliare. Ma perché a volte trovare l’essenziale, o cercare di andare al nocciolo di una questione, può essere un’impresa titanica degna di un Sisifo. Mi viene in mente il noto aforisma di Picasso:
A dodici anni dipingevo come Raffaello, però ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino.
O la poesia Amai di Umberto Saba:
Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica, difficile del mondo.Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato
In effetti deve essere estremamente difficile riuscire a disegnare con gli occhi di un bambino, essere capaci di usare le parole fiore e amore senza cadere nella retorica più banale o, ritornando a Quiroga, descrivere ciò che abbiamo nella testa con il numero e le parole esatte. È un’arte direte voi. Ebbene sì! E come qualsiasi arte necessita di infinita pratica e costante dedizione. Ma se si scava a fondo, eliminando tutti gl’inutili orpelli, ciò che rimane sarà qualcosa di autentico. Non c’è bisogno di tante parole, ma di una, quella giusta.
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Spesso, tuttavia, è una lusinga talmente ammaliante affezionarci a ciò che abbiamo fatto, qualunque cosa sia, che a essa ci aggrappiamo con tutte le nostre forze come fosse la nostra coperta di Linus. Vi è mai capitato di fare l’editing di un testo qualsiasi? Provate a dire a unə traduttorə o a unə autorə: “ma sai, io questa cosa la cambierei, magari detta così suona meglio”, e vedrete come improvvisamente i suoi occhi cominceranno a guizzare di rosso e a puntare smaniosi la vostra giugulare.
Eppure lo stesso capita anche a me. Nonostante provi a scrivere e riscrivere continuamente, cercando di non affezionarmi mai e limare il più possibile. Mi ricordo una scena di Vicky Cristina Barcelona (che filmaccio!), quando Juan Antonio alias Javier Bardem porta Vicky a conoscere il padre, un vecchio poeta catalano che distrugge subito dopo averle scritte le sue poesie, privandole così a un pubblico che a suo dire non le meriterebbe, in quanto troppo attaccato al mondo terreno.
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E se però il segreto dell’arte fosse allora nella sua natura effimera, evanescente come il pappo di un soffione in continua tensione verso la sua distruzione? Quando Keats celebrava l’urna greca e la sua bellezza, non ne esaltava in fondo questa peculiarità? Che l’artista fosse riuscito a rappresentare su di essa la fugacità della vita, cristallizzandola in un eterno istante altrimenti perduto per sempre? Non erano poi gelosi gli dei che l’uomo fosse mortale?
“Beauty is truth, truth beauty”, - that is all ye know on earth, and all ye need to know.
E non cantavano gli Zen Circus ai bei tempi:
L’arte è pensiero che esce dal corpo, né più e né meno come lo sterco.
Ma se così fosse, il valore di qualcosa di così trascendente non sarebbe tanto nella sua materialità provvisoria (impossibile no?), quanto piuttosto nel suo essere inafferrabile, quasi irraggiungibile. Non diceva forse Ovidio “fuggo ciò che mi insegue, quel che mi sfugge l’inseguo (Quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor)?
Leggevo qualche tempo fa sul Post che a definire il prezzo del vino sarebbero diversi fattori, tra cui alcune “caratteristiche intangibili che condizionano anche il valore di altre cose, come i vestiti, gli orologi o le opere d’arte”. Ad esempio, un vino molto invecchiato è probabile che sia imbevibile. Ma si compra perché ha un valore derivato dall’annata che magari era stata molto apprezzata, per il prestigio collegato al produttore, ma anche come investimento, potremmo dire quindi per il fascino che esercita sull’acquirente.
Ma cos’è in fondo a dare questo fascino, se non il fatto che una volta bevuti quei 4/5 bicchieri di cui è composta la bottiglia questa poi non sarà più, finita veloce così come il piacere ricevuto nel berla. Quando lo scorso anno uno studente mangiò la banana di Cattelan giustificandosi perché aveva fame, non ha forse interpretato appieno il senso di quell’installazione come ribadito dallo stesso artista?
Ma ecco, come al solito sono caduto nella tentazione. Doveva essere un numero sull’essenziale in letteratura e invece non ho fatto altro che divagare, perdendomi il nocciolo della questione. Non mi resta che rileggere e togliere, rileggere e togliere, rileggere e togliere, e chissà, forse alla fine resterà davvero qualcosa di concreto di questa newsletter di fine settembre, mentre fuori soffia dal fiume un vento freddo.
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Ad esempio qui racconto l’esperienza di quando ho visitato la mostra TOLKIEN. Uomo, Professore, Autore, voluta dal ministro della Cultura Sangiuliano e promossa dal Governo Meloni;
Mentre qui parlo di infodemia e comunicazione, in dialogo con Infocrazia di Byung-chul Han.